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Non ero mai stata una persona paziente.

Avevo sempre lavorato sodo per ottenere tutto e subito, ma l'arresto di mia madre e tutto quello che era successo dopo, mi avevano fatto capire che per alcune cose avrei dovuto aspettare. Quindi ero diventata paziente, mi ero messa in fila e avevo aspettato il mio turno, ma quella volta Kilian aveva deciso di farmi attendere più del necessario.

Era a Parigi, non era scappato di nuovo, ma da circa una settimana era diventato impossibile incrociarlo in qualsiasi occasione. Forse neppure io ero pronta per parlargli, dal momento che – le rare volte in cui uscivo di casa – correvo per le scale per paura di incontralo.

Anch'io ero strana, ero una contraddizione continua.

C'erano giorni in cui credevo di star affrontando la morte di mia madre con dignità, e altri in cui perdevo la ragione e ricadevo in vecchie e sbagliate abitudini. William, ogni volta che poteva, mi invitava a passare qualche ora a casa sua in compagnia di Brad. Alla fine aveva trovato il coraggio di parlargli della convivenza e Brad aveva accettato.

In tutto quel casino ebbi la forza di essere felice per loro, lo ero davvero perché erano stati in grado di non rimandare quello che desideravano. La vita era troppo breve per inventarsi continuamente scuse e non agire.

Per quei motivi, senza pensare alle conseguenze del mio gesto, uscii di casa andando a bussare alla porta della sua. C'era la possibilità che non ci fosse, che fosse andato chissà dove.

Forse a cercarsi un lavoro come avrei dovuto fare io.

Non ero più tornata al Garcia e avevo continuato a ignorare le telefonate del mio ex capo. Non mi sentivo più degna di un posto che mi aveva dato parecchie opportunità, e poi tornare lì avrebbe risvegliato in me ricordi che avrebbero fatto troppo male.

William mi aveva confessato che anche Kilian non frequentava più il locale di suo padre, e pensai che – con la morte di quella donna – il loro legame si fosse spezzato. Come se non avesse più ragione di esistere.

Sospirai, ero sul punto di arrendermi quando lui aprì la porta.

In quell'istante dimenticai tutto quello che avrei voluto dirgli, e le mie buone intenzioni di lasciargli spazio e tempo.

«Dimmi.»

Riconobbi subito quello sguardo, era lo stesso che aveva usato la prima volta che ci eravamo visti fuori quel carcere. Era tornato il gelo fra noi due, eravamo di nuovo estranei e tutto quello che avevamo vissuto non esisteva più.

Non mi venne nulla in mente, qualsiasi cosa sarebbe risultata fuori luogo e stupida. In poche parole: se l'avessi abbracciato sarebbe stato tutto più semplice. Ma lui non avrebbe mai accettato una cosa simile, e io non avrei saputo gestire il suo rifiuto.

«Ecco...»   Mi guardai intorno, pur di non lasciar trasparire il mio dolore dinanzi al suo odio. «Mi chiedevo se avessi un po' di...» scossi il capo. «Nulla, scusami» indietreggiai. Ero sicura che lui avrebbe lasciato perdere, che si sarebbe chiuso in casa e che mi avrebbe ignorata.

«Cosa vuoi realmente, Rose?»

Sussultai. Erano parecchie settimane che non usava il mio nome, che non mi rivolgeva la parola. Presi un lungo respiro, trovai il coraggio necessario per affrontarlo perché infondo, sin dall'inizio, io ero sempre stata così con lui.

«Vorrei parlare con te» lo guardai, anche lui lo stava facendo ed ebbi, per una frazione di secondi, la sensazione che tutto fosse tornato al suo posto.

«Non me la sento, non adesso almeno.» La sincerità che lessi nelle sue parole mi mise con le spalle al muro, ma non in senso negativo. Non me lo aspettavo, non pensavo di riuscire a scorgere uno spiraglio nel muro che aveva innalzato fra noi due.

Prigionieri del destinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora