|Immagini e Oneshot| Il lamento del satiro

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Il satiro suonava con gli occhi chiusi, le zampe caprine che sfioravano l'acqua. Una melodia malinconica riempiva l'aria calda e dorata del tramonto, come una fragola fresca immersa nel miele. Se qualcuno fosse stato lì, sarebbe rimasto incantato dalla musica come dal modo in cui il corpo del satiro si muoveva con essa, dalle sue sopracciglia corrugate, dai suoi ricci scuri mossi dalla brezza. Ma Dimos non voleva altri spettatori, e non voleva altri amanti.
La musica cessò, e il satiro appoggiò la schiena al piedistallo della statua. Alzò gli occhi arrossati al cielo.
《Non avrei mai dovuto aprire gli occhi,》 disse al nulla, 《Ora non posso più fingere.》 Si girò lentamente verso la statua che lo sovrastatava, candida come lei quando l'aveva vista l'ultima volta. Quando stava esalando il suo ultimo respiro.
《Apasia, mia Apasia...》 sussurrò il satiro, come se la sua Apasia potesse sentirlo. Riconosceva il suo viso nel marmo, ma il corpo era maschile. Il suo travestimento, il suo inganno mai scoperto. O un modo dello scultore di razionalizzare ciò che era successo.
Queste rappresentazioni rendevano Dimos furioso, ma non quanto la realtà. Apasia era morta da eroe, quando sarebbe potuta vivere con lui. E ora gli restava solo una statua.
Chiuse di nuovo gli occhi.
《Apasia, mia Apasia...》 ripetè sottovoce. Ancora più flebile fu la risposta dall'alto: Dimos, mio Dimos...

Diario di una giovane scrittriceWhere stories live. Discover now