Capitolo VI

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Ho iniziato ad avere incubi da quando sono al St. Catherine.

Sogno di essere a casa mia, raggomitolata nell'angolo più buio della stanza, con una voragine nello stomaco. Non ho fame, anzi, vorrei vomitare la mia stessa carne. Sento delle voci passare nel corridoio, ma più cerco di comprendere cosa dicono, più le sento distanti. C'è mio padre. Ne sono certa. È da qualche parte vicino a me. Non ne ho paura... ne sono terrorizzata.

Poi arriva un medico. È il dottor Crane che mi spoglia e mi obbliga a ingoiare delle pillole grandi come una pagnotta. Vorrei morderlo, ma mi accorgo di non potermi muovere e di essere senza denti. Mi tocca dappertutto e buca la mia carne con uno spillone.

Infine, scuote la testa.

«Non migliora» riferisce alla figura scura dietro le sue spalle. «Non è depressione. Non è solo infelice. È completamente impazzita.»

«Faccia quel che è necessario» replica la voce.

È mio padre. Vorrei urlargli contro, e dire che è lui il pazzo che ha ucciso mia madre. È lui che merita di morire. Ma l'enorme pillola che mi ha dato Crane mi blocca la gola.

«La porto nel mio ospedale. Là posso curarla, abbiamo i migliori medici di Nuova Alba. Guarirà» promette Crane.

No!, vorrei urlare. Mi riempiranno di botte, mi lasceranno marcire nei miei escrementi. Diventerò pazza per davvero: legata al letto, a fissare per sempre lo stesso quadrato di soffitto scrostato.
Papà!, mi metto a gridare. Non esce nulla dalla bocca. Papà, aiutami, non lasciare che mi porti via. «Mi fido di lei» conclude Daniel Harvey.

No papà, non lasciarmi morire...

Quando mi sveglio, sono sempre in un mare di sudore. Respiro a fatica, mi servono alcuni minuti per rendermi conto che è stato solo un sogno.

Non tanto distante dalla realtà.

Non fu Crane a visitarmi quando mia madre venne uccisa. Era un certo Dottor Morris. Sosteneva che non stavo migliorando, che una brutta depressione avrebbe compromesso la mia carriera. Che forse era il caso di portarmi in una struttura idonea.

Mio padre rispondeva solamente: «Ci penserò.»

E ogni giorno rimanevo a letto a fissare il soffitto. Non potevo sopportare che neppure un raggio di luce filtrasse nella stanza. Desideravo uccidere mio padre e al contempo volevo correre da lui, stringerlo forte e farmi promettere che non se ne sarebbe mai andato via.

Avrei voluto che mio padre mi spazzolasse i capelli, come faceva quando ero bambina. Mi faceva accomodare sulla sua poltrona di fronte al camino e li pettinava fino a quando ogni nodo non era sciolto. Mia madre alzava lo sguardo dal libro che aveva in mano e sorrideva, complimentandosi per la treccia o i codini. Daniel Harvey mi baciava sulla fronte, fingendosi arrabbiato perché gli avevo rubato tutti i capelli. Indicava la sua stempiatura con delusa vanità. Io e mia madre ridevamo.

Se fosse solo tornato da me abbracciandomi come una volta, gli avrei giurato che non sarei mai più stata debole.

Non lo fece. E io rimasi immobile sotto le coperte. In un sonno senza sogni e senza riposo.
Poi arrivò Johnny. Si sedeva accanto al mio letto, accarezzandomi il viso. «Roxy» sussurrava. «Roxy...»

Non rispondevo mai alle sue domande. Fino a quando, un giorno, fece quella giusta. «Vuoi morire, Roxanne?»

Lo disse senza angoscia nella voce.
«Vuoi morire con me?»

«Sì.» Era la prima cosa che dicevo da settimane. La prima risposta sensata che il mio cervello aveva articolato.

«Vuoi rinascere dopo essere morta?»

RebornWhere stories live. Discover now