Negative Creep

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Ma la vita continua e purtroppo noi dimentichiamo. Ricordo la volta che Picchio prese la panda nera del padre. Aveva quindici anni. Successe nel millenovecentonovantasette.
Dentro l'auto c'erano pezzi di legno bruciati. Mauro non tardò a dare il suo giudizio: "Questa macchina è una merda" disse.
"Non rompere i coglioni, Mei" rispose Picchio. Thomas caricò un tavolino arrugginito dietro. L'autoradio Pioneer era uno schifo. Il vetro posteriore era rotto e il telaio scricchiolava in modo preoccupante. C'erano anche Zac e Andrea Carta. Con gli AC/DC giravamo un po' dappertutto. Andammo a casa di Manuele Lussu, un amico dell'epoca, alla rotonda del parco, felicissimi di quell'avventura, con Mauro che appena apriva bocca sparava le sue spassose cazzate. "Mara Troia!" urlava per insultare la sorella di Andrea. Era quello che gli dicevano un po' tutti al parco. Passammo anche vicino all'anfiteatro, vicino a quegli alti alberi affascinanti, mossi d'aria fresca.
"Sa di spirito adolescente", questa era la frase in quelle stagioni morte. Smells Like een Spirit.
Ero contenta perché avevo trovato i miei amici. Sì, ero contenta perché avevo trovato i miei amici. In via Repubblica, con lo stereo al massimo. Il bottiglione di vino ce l'aveva Thomas, nel sedile a fianco a Picchio e Mauro sparava ghigni dal finestrino. Le nostre risate si mischiavano alle urla. Zac aveva una risata da marcio. Delle ragazzine ci guardarono allibite.
Una bellissima giornata fresca e adolescenziale. Un avventura di primavera, degna dei tempi di Seattle. Ma non chiedetemi che vuol dire. Sa di spirito adolescente.
...
Va bene, i suoi genitori a volte lo trascuravano, ma vi posso assicurare che per loro il sole sorgeva e tramontava con lui.
Era stravagante, intrippato, a volte fuori da qualsiasi logica.
Se non riuscite a capire la bellezza, fate finta che una musica accompagni le immagini nella vostra mente. Per me è "Jesus Doesn't Want Me for A Sunbeam", ma se non la conoscete va bene qualsiasi cosa, basta che per voi sia bellissima. Non parlo di musica da discoteca, ma di musica vera. Pura. Fatta con strumenti, e non con un computer. Le volte che si sedeva a tavola con i suoi, perchè non succedeva sempre, loro si illuminavano. Quando se ne andava, perdevano il sorriso. Le stanze risuonavano vuote, tristi, sopratutto il piano terra. Non si sentivano riff, non si sentiva la musica.
Improvvisamente tutto non aveva più senso. Quando tirava calci all'armadio e si muoveva istericamente, perchè non riusciva a trattenersi. L'angelo biondo e la sua chitarra. E faceva infogare anche noi, e faceva le cose animato pur sempre da una certa eleganza. Anche un piccolo calcio all'armadio, dato da un altro, sembrava brutto. Dato da lui, invece, diventava un ricordo indelebile nella mia mente. Il sole, e il calcio che diede in quella stanza, per sempre illuminata leggera, sfumata nel nulla. La Livori in generale, nuvolosa, diventava solare dentro di noi.
Gli facemmo anche una foto con la sua nuova Gibson, e quella foto più avanti avrebbe avuto una triste storia. Ci mettemmo anche a pogare, una volta, là dentro. Mise "Appetite For Distruction" dei Guns. "Paradise City" risuonava fra le mura, come una bomba, i watt non ci spaventavano, al massimo davano fastidio ai vicini. Ma al diavolo i vicini. Eravamo noi che volevamo così. Risate soffocate nella mente, fecce felici. Mi fermai un attimo a guardare. Voglio restare piccola e divertirmi. Non voglio crescere mai.
...
Era inverno. Piazza Zampillo sembrava londra. Un fascino antico, illuminata dalle vecchie lanterne. Una notte del novantasette, gelida. C'erano tutti, non mancava proprio nessuno. Come se tutto fosse stato scritto da tempo, come se tutti sapessero qualcosa. C'era anche Paolo Todde, il più bastardo ragazzo di Livori, colui che un giorno investì Thomas, in via Repubblica. Il biondino aveva appena abbandonato gli alberi del parco per andare a comprarsi le sigarette. Io lo portai al pronto soccorso, quella sera, perchè si era lussato un ginocchio.
La dottoressa gli chiese di togliersi i pantaloni, e lui lo dovette fare di fronte a me, imbarazzatissimo. Io da perfetta bastarda rimasi la a guardare. Si trovò in mutande. Mi guardò come per pregarmi di voltarmi da un altra parte. Non ci riusciva a dirmelo. Gli fasciò tutto il ginocchio. Paolo era anche quello che ci rubò lo skate che dimenticammo una sera, in piazza di chiesa; quello che ci tirò una pallonata, in via Parrocchia, facendoci quasi cadere dallo scooter. Accompagnavo Mauro a casa.
"Se ci faceva cadere, gli scoppiavo la chitarra in testa" tuonò quest'ultimo; e tante altre cose. Insomma, paolo era un po' il nostro incubo. Il bullo di tutti i tempi. Il bullo della nostra storia. Quello che incontriamo tutti, una volta nella vita. A causa sua un periodo non potemmo più entrare al parco per una settimana. Lui e i suoi amici avevano preso Thomas a schiaffi un bel po' di volte. Zac non usciva di casa per giorni interi per colpa loro. Il biondino passava ad avvertirlo: "Oggi no, Zac. Ti cercano. Forse domani".
Un giorno di quella settimana Thomas provò comunque ad entrare. Suonò qualche nota di Cotton Fields, e subito vide un casino di persone correre verso di lui. Fuggì a tutta birra, schivando le pietre e sforzando il ginocchio malconcio. Istigò anche due o tre di noi a farlo. Avvicinarci al parco per poi scappare nuovamente, non si annoiava di certo. Trovava sempre cavolate spassose da fare.
Era bello il novantasette. Troppo giovane e divertente. In scala: Novantasei, novantasette, novantotto e novantanove... anni magigi.
...
ricordo una cosa buffa che la madre mi raccontò. Ogni tanto lei gli dava uno strappo in paese in macchina.
"Mamma, comprami un giornale" le disse un giorno davanti all'edicola. Lei l'accontentò. Il giornale si chiamava Hard Rock, lei però davanti all'edicolante disse: "Mi serve quel giornale, Hard". Il povero signore rimase un po' perplesso.
"Ma lei vuole un giornale pornografico?" domandò.
"No!" si affrettò a rettificare la signora. "È un giornale di musica".
"Ah, Hard Rock!"
Fu abbastanza divertente, il modo in cui lei me lo raccontò. Il biondino se li mangiava quei giornali. Restava li a leggerli continuamente, in cortile, in cameretta, a cena, in bagno.
Un altra volta invece lo portò con se a comprarsi un profumo. Solo che la profumeria aveva traslocato, e lì, all'epoca, c'era un agenzia funebre, e si trovarono dentro, circondati da un sacco di bare. Belline queste avventure fra mamma e figlio.
Bellino anche il modo in cui lui faceva merenda verso le cinque, le sei. S'ingozzava di pastine, beveva la limonata col cucchiaino. Diceva che così durava di più. Ci metteva un sacco di tempo a finirla. Una volta me ne offrì un bicchiere, mi portò anche un cucchiaino. Io risi. "A me piace berla normale" gli dissi.
Non faceva sempre cose strane e pazze, a volte era normale, o quasi. Una volta guardava una videocassetta porno e mangiava un piatto di pasta fredda. C'era una donna che lo prendeva in bocca ad un uomo. "Che schifo" dissi. Anche a lui faceva un po' schifo. La guardava più che altro per curiosità.
"Te l'immagini se quello te lo mette nel culo?!"gli domandai. Era un pene piuttosto grande. Si toccò il didietro, come se volesse difendersi al solo pensiero. "No, aiuto!" strillò. "che schifo!"
Alla fine l'uomo riempì di sperma la bocca della donna. Io voltai la faccia. Lui si bloccò con la forchetta vicino alla bocca. Dalla forchetta si staccò pure la pasta, cadendo sul tavolo. Era immobile, disgustato. Gli venne quasi da vomitare.
Gliel'aveva prestata Andrea. Quest'ultimo l'aveva trovata tra le cose del padre, il macellaio bastardo di via Cagliari, vicino alla sala giochi. Era chiamato "macellaio bastardo" perchè ti dava carne scadente a prezzi piuttosto alti. La famiglia di Thomas andava a comprare da lui. Il biondino glielo rinfacciava sempre al parco. "Le fettine di tuo padre fanno cagare!"
era lo stesso periodo che lo trovai coricato sul letto, un giorno, con le mutandine bianche. Non lo svegliai. Lo guardai per mezzora circa. Gli odorai i piedi e non puzzavano. Davvero graziosi. Le gambette dritte. La forma del culetto, sporgente. I capelli cadevano sulla sua schiena elegante. Ero scesa da lui perchè non l'avevo trovato in giro. Né al parco, né per le strade, né al cimitero. A casa sua era solo. L'odore di legna bruciata, e le porte aperte. Allora era autunno. Il garage all'entrata era pieno di foglie. Lui un po'... sì, tremava. Li vidi la figura di un ragazzino abbandonato alle gelide braccia di morte. Tutta la vita mi è sembrato di vederlo morire. Ogni volta che gli cadeva un capello e io me ne accorgevo, lo prendevo e lo conservavo, come se fosse un ricordo su cui piangere quando non ci sarebbe stato più. Non sapevo spiegarlo, non potevo spiegarlo o parlarne con qualcuno. Era qualcosa di mio, che ogni volta che veniva, mi uccideva dolcemente. Perchè sentivo Thomas morire nei miei pensieri? Raccolsi un capello al parco e uno in camera mia, mettendolo in mezzo ad un quaderno. Sono gli unici che ricordo. Non potevo confonderli con nessun altro capello. Lunghi e biondissimi. Mi sarebbe piaciuto avere un calzino suo. Una maglietta. Magari le sue pastiglie contro l'ansia. Gli misi una coperta addosso e me ne andai, lasciandolo dormire serenamente.
Tornando a quella volta in Piazza Zampillo, Paolo fu la causa di tutto il casino di quella notte. Fu lui a cominciare a gridare quello stupido soprannome.
"Satana" e a contaggiare a poco a poco tutti gli stronzi, le pecore, che riempivano la piazza. Gli urlarono di tutto. Insulti a sua madre, alle sue sorelle. E quel soprannome continuava a risuonare nella sua testa: "Satana". "Satana". "Satana".
Picchio, innervosito, tirò una bottiglia di birra nei piedi di Paolo. Quest'ultimo lo afferrò per il colletto.
"Lascia Picchio!" urlò Thomas, e si mise in mezzo per difenderlo, però si beccò un pugno in faccia da un amico di Paolo. Non l'avevo mai visto così provato. Si teneva il viso con la mano e respirava molto agitatamente, come un moccioso che sta per piangere. Gli dissero davvero di tutto. Lui camminava a testa bassa. Faceva finta di niente, ma l'ombra nei suoi occhi lo tradiva. Sbuffò in modo commovente, raggruppandosi i capelli dietro l'orecchio.
"Lasciatelo stare, poverino" disse qualcuno. Si toccava il labbro perchè gli faceva male. Picchio stringeva i pugni dal nervoso, e anch'io. Gli insulti si sentirono fino a su. Ci sedemmo su un muretto, appena sotto le scale del municipio. "Che bastardi!" ne uscì Zac. "Non pensarci!" gli consigliò Mauro.
Picchio salì su un cassonetto e si mise a cantare un pezzo di Mauro, che con i Maya, il loro gruppo grunge, erano soliti suonare alla saletta della falegnameria o a quella di Sant'Antonio.
Però la cantò in modo beffardo, praticamente per prenderlo per il culo. Si beccò un vaffanculo con ghigno. Ciò scatenò una sonora risata generale. Thomas si era alzato in piedi. Stava già meglio. Era carino il modo in cui il suo orecchio destro spuntava fuori dai capelli. Rideva ancora un po' per la buffa scenetta. Il lampione su di noi era spento. Gli era uscito un po' di sangue dalla bocca, e ne aveva anche un po' sulla mano. Poi si sedette più in la, da solo, e cominciò a piangere. Io mi alzai subito, e con me Picchio, Zac e tutti gli altri. Ci inginocchiammo formando un cerchio attorno a lui. Li capii che se qualcuno ne avesse avuto bisogno, gli altri ci sarebbero stati. Fu la consacrazione del gruppo. Il tutti per uno, uno per tutti. Giù tu, giù noi. Sennò la vita è solo una stronzata, è la fine di tutto. Ma il tempo fa dimenticare. Thomas si asciugò le lacrime, sorrise, ritornò in ogni rockettaro, in ogni vita che ricomincia col primo riff, fra mille chitarre e i soliti zoticoni di paese.
...
Suo padre gli aveva rimesso apposto Donald, il motorino, così decidemmo di andare a fare un giro alla spendula, una bellissima località campestre del nostro paese. Io portavo Hemil, lui invece Andrea, il bassista capellone con la faccia da furbetto. Avevamo con noi anche un piccolo registratore. Hemil faceva un casino di pernacchie. Thomas cantava pezzi dei Dead kennedys, e Andrea urlava cose tipo "Tua madre troia!" in preda ad una completa follia, e poi bestemmie che, mi dispiace ammetterlo, ma ci facevano ridere. Donald faceva un casino di fumo, inondava la strada di campagna, e poi, anche un rumore assordante. Passavamo sui bordi della strada per dare calci ai paletti. Prendemmo a Thomas il registratore: "Fà vedere" gli disse Hemil allungando una mano. Il mio scooter era più forte, e quindi riuscimmo a seminarli. Fu solo uno scherzo, ma lui s'arrabbiò lo stesso. Dopo:
"Siete dei pezzi di merda!" ci urlò. Si riprese il registratore e ripartì.
"Ma cos'è, scemo?" mi domandò Hemil. Io alzai le spalle. Era uno dei suoi soliti sbalzi d'umore. Andrea da lontano ci fece il ghigno.
Ci facemmo un giro e poi scendemmo a casa sua.
"Venite che ascoltiamo la cassetta" ci disse, così capimmo che non era incazzato. Solo completamente pazzo, com'era sempre stato. Risentimmo felici tutte le nostre stronzate, le urla, il casino che faceva Donald, le parole dette e non dette, di un altro bel giorno passato nelle campagne di Livori. Tipo:
"Al galoppo Donald!"
"Holiday in Cambodia!"
"Guarda avanti!"
"Cazzo, stavamo per cadere li!"
"Attenta, stronza! Mi stai tagliando la strada!"
Era uscita così bene che decidemmo di farne un altra. Stavolta però nei boschetti più giù di casa sua. Calcó Rec, e la prima frase che disse fu:
"Anche oggi è nuvoloso, tanto per cambiare! Mia madre è una troia! Io sono Gay!"
quindi lasciamo Donald e il mio Zip per andare in mezzo agli alberi, giravo in tondo con le braccia aperte in una pioggia di foglie morte, menre lui camminando toccava con le sue bellissime mani tutti i tronchi.
"Cè un vento pazzesco!" esclamò Hemil. Infatti questo permetteva alle foglie di andare da una parte all'altra. Tutto intorno a noi, alcune sembravano non voler toccare terra. Si misero accucciati cercando di accendere un fuoco. "Vi siete fottuti il cervello? Non si può" spiegai. Così giocarono con un bidone della spazzatura. Ci entravano dentro uno alla volta e gli altri due lo facevano rotolare. Poi se lo lanciavano addosso l'un l'altro. Mi buttarono a terra e mi saltarono tutti sopra. A Thomas tirai i capelli così forte che fu costretto a lasciarmi, però mi dispiacque. Quei capelli erano troppo belli per essere maltrattati, infatti mi assicurai subito di non averne spezzato qualcuno. Ogni volta che glieli toccavo, sfuggiva. Lo odiava. Andrea ed Hemil lo immobilizzarono apposta.
"No!" urlava. "Pettinalo!" mi strillarono. Io però non fui d'accordo. Se lui voleva che nessuno glieli toccasse, perchè avrei dovuto farlo? Lui apprezzò questo, e dopo infatti mi permise di fargli qualche treccina. E fumammo anche dell'erba. Ci mantenevamo agli alberi per non cadere. Tutto appariva allucinato e grande, instabile, senza memoria concreta. Ricordo solo le sue treccine mosse nel vento, i suoi occhi spenti, le risa. Tutto suonava rimbombato.
...
"Siamo odiati e orgogliosi di chi dice che noi siamo delle merde". Se andate oltre il cancello del cimitero e poi per la stradina alberata, troverete una scritta, Sex Pistols, il disegnino di una ragazzino che beve birra e un altro di uno in skateboard, Hardcore Mean. Se poi vi avvicinate alle scalette, proprio dove c'è il lampione, entrate nell'anfiteatro. Luogo di culto, di sogni e di scritte. Scritte di tutti quanti noi. Il simobolo dei Pennywise, il nome Maya, scritto da Mauro. Troverete anche tantissime bottiglie rotte, di tanti anni fa e anche recenti. Nessuno le ha mai levate. Daniele, il ricciolino dal viso simpatico, una volta si fece male a un piede a causa di quei vetri. Dall'anfiteatro si può vedere la strada per la Spendula, il ponte più di tutto.
Comunque devi stare su per vederli, perchè se scendi la visuale ti viene leggermente coperta e rischi di ferirti come Daniele. Li Checco, il robusto ragazzone, una volta, alla fine del giorno, stava solo da una parte con la chitarra di Hemil. Quella chitarra aveva solo due corde, ma lui riusciva ugualmente a far uscire accordi interessanti. Gli altri lo guardavano: "Come cazzo fa?" si chiedevano. Ne sono successe troppe per poterle dire tutte. Era un posto che ti tornava sempre in mente. Michi ci pensò a scuola, a Sanluri, io ogni pomeriggio a casa: "Chissà se qualcuno è all'anfiteatro?" mi chiedevo.
Quando rientravo a casa, dopo cena o in altri orari, alla domanda "Dov'eri?" mi trovavo spesso a dire quel nome. Era qualcosa che ci apparteneva. I nostri spiriti, le nostre parole, le note, la musica, le cazzate, il solito sapore delle giornate, l'odore del tuo mondo che ti porti dietro tutta la vita, la solita atmosfera, il solito ambiente di stagioni morte, leggermente cupo e incerto. Spicchi di allegria ogni tanto escono dalle nuvole. Iniziano nuove cose, e devi ricordarti di tutto, perchè più in la senti che se non lo fai potresti pentirtene. Li avevo l'impressione che più avanti nel tempo le nostre vite sarebbero state brutalmente stroncate, che qualcosa di brutto stesse sempre ad aspettare. Calmo. Astuto. Nascosto fra le nuvole. Per quello non se ne andavano mai. Avevano un piano: ingannarci, tradirci. E spiavano sempre Thomas, come se non volessero perdersi le parti più importanti della sua vita. Lui aveva un aura intorno a sé. E lo volevano. Loro lo volevano.
Ora lo rivedo. All'anfiteatro. Un quattordicenne carino avvolto dal brutto tempo, vestito buffo, con Elena vicino a sé, seduti in terra, ranicchiati contro il muro, col vento che fa freddo e squote violento gli alberi. È un ricordo di pieno inverno. Il vento fa più rumore di un sospiro, riesce a coprire una chitarra classica, se suonata leggermente. Ma lui non sembra avere freddo, sorride.
Nel ricordo i rumori non li senti più, vedi solo le cose, e ciò che vedo mi piace. La mia paura era che quei bei tempi potessero presto o tardi, in qualche modo, finire. Vedete, le parole non possono sprimere bene la bellezza di un posto o di un momento.
...
falsi ribelli. Ne avete mai sentito parlare? Praticamente sono le pecore travestite. "A me piace il rock" dicono. Ma in realtà non gliene frega un cazzo. Pensano che un paio di jeans rotti, i capelli colorati, catene e altra merda bastino per essere un vero. Non capiscono che il rock è un modo di pensare, non di vestire. Ormai è diventata una moda. Non c'è più sincerità. Il rock dev'essere qualcosa di costruttivo. Può gridare, sfogare la nostra rabbia, farci sentire meglio. Può protestare affinchè le cose vadano meglio. Ma anche il contrario. La follia appartiene a tutti e a nessuno. Chiunque può essere un folle: un trendy, un rockettaro. Dipende dal nostro carattere. Thomas faceva il pazzo, si vestiva di merda e si sballava fino a vomitare. Perchè lui voleva così. Non ha mai associato o giustificato i suoi modi di fare con il rock. Uno può essere il più elegante, bravo, educato ragazzino del mondo ed essere comunque più rockettaro degli altri. Sono le tue idee. Dovete trovare la vostra voce. La vostra camminata. Più in ritardo iniziate, più è grande il pericolo che non la troviate affatto. Siate liberi pensatori.
Due strade trovai nel bosco, e io scelsi quella meno battuta, e per questo sono diverso. (L'attimo Fuggente).
Invece, i falsi ribelli fanno della loro vita una messa in scena, copiano. Sono bugiardi e traditori. Insieme a MTV rovineranno, soffocheranno, uccideranno il rock. E noi con lui.
...
il tempo passò, e un giorno di quelli Elena decise di lasciarlo. Se ne stava in camera, con un cappello da pescatore, seduto sul letto. Poi dopo si mise a suonare, come se niente fosse. C'eravamo io e mauro con lui. In cortile, Celeste parlava con alcune sue amiche. Erano vestite tutte alla moda. Uscì e strillò con aria carina:
"Cos'è questa roba?" poi si mise a saltellare attorno a loro come un indiano.
"Thomas!" urlò la madre dal piano di sopra. "Lasciale in pace".
Non era la prima volta che passava per pazzo davanti alle amiche delle sorelle. A San Sisinnio, davanti alle amiche di Desirée, saltò da una roccia altissima e sbattè la bocca in terra.
Sembrò un miracolo che quel suo fisico gracilino non riportò nessuna frattura.
"Ma sei scemo?" urlò lei spaventatissima. Lui in ginocchio, tutto dolorante, urlava: "Sì, sono scemo! Sì, sono scemo! Sì, sono scemo! Ok? Ok? Ok?"
Desirée gli tirò i capelli facendolo alzare. "Smettila, sta zitto!" gli ordinò, preoccupata perchè aveva tutto il muso pieno di sangue. Non immaginate la faccia delle amiche e della gente che si fermò a guardare. "Perchè l'hai fatto bere, Mauro?" domandò Desirée. Mauro non sapeva che dire. Dopotutto non era colpa sua. L'aiutava a farlo tacere perchè continuava a strillare. "Io sono Satana! Volete picchiarmi? Tanto non sento il dolore!"
"Zitto Thomas!" urlò di nuovo Desirée, mentre lo strattonava innervosita.
"No, non voglio stare zitto!" continuava lui.
"Expoited! Barmy Army! Exploited!" ormai era in uno stato confusionale. Io ridevo sotto i baffi. "Thomas, ti prego zitto!" gli disse ancora una volta Desirée. Prese un fazzoletto e gli pulì il sangue. C'erano alcuni stronzi trendyni, che ancora una volta lo prendevano in giro. Da un altra parte Jemi, sul muretto, era fumato di brutto. Ma la cosa che mi rattristò fu che Desirée ci stava male a vedere suo fratellino ridursi così. Thomas si gettò a terra e cominciò a vomitare. Alcune signore li davanti dissero che era meglio così, che gli avrebbe fatto bene. Desirée l'abbracciò e pianse.
"Devo riuscire a farlo cambiare!" disse alle amiche. "Basta Thomas!" ne uscirono anche queste. Mauro e Zac lo portarono allo Chalet, un locale del posto, e gli fecero bere un caffè forte. Hemil era sempre stato contrario ai suoi modi di fare. Una volta gli disse che era un perdente e che sarebbe morto da perdente. Bastava guardargli il braccio per capire che si faceva male volontariamente.
Mi sentii una stronza sapendo che prima io ridevo, mentre Desirée invece era preoccupata per lui. Ci pensai tutta la notte guardando il soffitto in camera mia. Dopo il caffè gli parlarono per non farlo addormentare. Anche le cose più stupide andavano bene.
"Thomas, come fa Cotton Fields?"
"Ehi, testa di cazzo, apri gli occhi!"
Un amica di Desirée, Betty di diciasette anni, gli disse: "Ehi, dolce biondino! Ti avverto. Quando crescerai, ti farò la corte". Avrei voluto ucciderla, e poi non era così piccolo, aveva quattordici anni. Il fatto è che ero gelosa se qualcuno me lo toccava. Mi addormentai.
Quella notte mi ero talmente fissata con lui, che lo sognai pure.

 Quella notte mi ero talmente fissata con lui, che lo sognai pure

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Echi Di Squarciagola Where stories live. Discover now