Capitolo 13

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Damen

FANTASTICO.
Fantastico è stato l'atteggiamento assunto ad ogni lancio, roteava il corpo e mostrava il dito medio. Non il massimo della femminilità, ma ho sorriso. Mi sono divertito moltissimo, osservarla in difficoltà è stato uno spasso. Alla fine della partita, il monitor segnalava un solo vincitore: il sottoscritto. Non ho richiesto il premio, il disagio si è affievolito nel corso delle ore.
«Allora, quanti anni hai?» domanda, nel contempo mangiucchia una patatina. Poggia entrambi i gomiti sul tavolo e le spalle sollevate all'altezza della testa. Noto l'inchiostro sulle clavicole e il piccolo puntino accanto alle labbra. Ha legato i capelli con un fermaglio colorato, spuntano sui lombi una decina di pendenti, sulle falangi anelli costosi. I ciuffi dorati incorniciano il viso scaltro, il disegno nero sulla palpebra risalta la forma allungata. Non ha badato alle calorie, il cheeseburger doppio ne è la conferma. Al contrario, l'insalata nel mio piatto chiede di non essere ingurgitata. Ha storto il naso alla mia richiesta, finché non è arrivato il suo ordine. Le scintillavano gli occhi alla vista di tutto quel fritto.
«Venticinque il 20 novembre» spiego, erompe in una serie di mormorii sconnessi. Afferra la stoffa e pulisce l'orlo, estrae il cellulare dalla tasca e traffica con la tastiera. Velocemente e con una smaniosa fretta, stringe i denti e sussulta. Rivolge lo schermo al tavolo, un risolino amaro fuoriesce dalle labbra. È ansiosa, c'è qualcosa che le impedisce di godersi a pieno la conversazione.
«Io ne ho compiuti diciannove da mesi. Mia madre ha organizzato tutto nei dettagli, ma io odio festeggiare il compleanno. Perché aspettare un giorno in cui si aggiunge un anno alla vita sulla terra?» farnetica, apre bocca l'instante dopo.
«Posso? Vorrei riconoscere la tristezza quando la vedo» indica la stoviglia di foglie verdi. Rifiuto, non provo piacere nel condividere. Ho chiesto espressamente un bicchiere monouso e delle posate plastificate, la sensazione di tastare oggetti già in uso m'incute un certo fastidio. Rammento perfettamente il giorno in cui ho compreso di essere dissimile agli altri ragazzetti, mai avuto nulla in comune. I colpi incassati e i rimproveri a testa bassa hanno reso reale la teoria, non ero un bambino come gli altri. Ho sempre avuto responsabilità maggiori. Reclino la schiena, cedo contro la seggiola in pelle rossa.
«Mi dispiace» mormoro, l'espressione rammaricata e volta al di sotto del tavolo in legno. Non oso scrutare il linguaggio del corpo, neanche una volta mi è stato sollecitato. Nessuna donna ha mai implorato un pezzetto del mio cibo, troppo impegnate a venerare l'aspetto esteriore.
«Non dispiacerti. È un criterio ragionevole, mia sorella è ostinata nel tener in regola gli abiti per colore» solleva le spalle, insiste nel controllare più volte il telefono. Il trillo risuona nel locale, decifro rapidamente il nome: Dave. Menziono mentalmente la quantità di denaro che mi deve, la data del debito e la retribuzione non avvenuta. Perché frequenta un personaggio insensato e banale come David Taylor? Pertanto, perché è così fastidioso? La convocazione viene sospesa, l'aspetto di una bambina compare sul piccolo monitor. Due dentini e qualche ciuffo biondo, splendidi occhi azzurri. Sorrido involontariamente, tento di coprire le labbra con un gesto veloce del palmo. È conforme alla ragazza, stessa espressività.
«David, David è il tuo ragazzo?» pronuncio, traffico con l'asta e gioco con la lingua. L'acqua fluisce nell'esofago, ingoio rumorosamente. Frena ogni gesto, dilata le palpebre e squarcia la quiete con l'ilarità. Flette il capo all'indietro, strizza il naso e colpisce la gamba coperta dai jeans. Armoniosa e soave, punta il petto con il dito.
«Io e Dave? Dave?» scuote la figura.
«David è un mio carissimo amico. Non potrà mai esserci nulla fra noi, solo tenue fratellanza» parla fra gli squassi. Finge di asciugarsi una lacrimuccia e ghigna. La curiosità impregna le gote arrossate, curva verso la spalla destra. I fili d'oro lambiscono la clavicola, prego in silenzio di non essere colto il flagrante ad osservare tale magnificenza.
«Ti piacciono i cavalli?» chiede, indica il ciondolo al polso. Sollevo l'arto e scuoto l'acciaio, il tintinnio della campanella è composto per donare tranquillità a chi lo ascolta. Gerard lo consegnò a mia madre il giorno del mio sedicesimo compleanno, non avevo mai guardato nulla di più luminoso. Annuisco, parlo pianissimo come se fosse una confessione.
«È Tempest, uno dei cavalli del nostro ranch» mordo la lingua per aver definito Tempest un cavallo qualsiasi, lui è il mio migliore amico. L'unica fonte d'amore che ho, dono e ricevo altrettanto.
«Non amo molto gli animali, quando ero bambina un cane mi ha azzannato l'anca. Ho ancora la cicatrice!» scatta in piedi, compie un giro e s'avvicina. I pantaloni sono decisamente troppo larghi, scoprono l'ombelico e ricoprono a stento l'elastico delle mutandine nere. Solca la carne nuda e pressa per mostrare la ferita, piccola e impercettibile. Sollevo l'indice per sfiorarla, si ritrae con timore. Ricopre ogni lembo scoperto con le braccia, indossa il cappotto con maestria e non fiata. Comprendo di non aver tracciato nessuna linea di confine fra noi. Permane esterrefatta dal suo stesso atteggiamento, raccatto il giubbotto e con un cenno indico l'uscita. Insiste nel voler dimezzare il conto della serata, estrae la carta dorata e invoca Alan. Polemizza su quanto sia anticonformista, ma frattanto un bagliore oltrepassa le iridi. Desidera essere lusingata, ma non troppo. Cammino con le spalle rigide, ampio la soglia e ringrazia. Medita su qualcosa, giocherella con le falangi e scalcia qualche sassolino. La brina varca la soglia, la nebbia è già calata da qualche ora. Passeggio a pochi passi di distanza, le concedo un piccolo intervallo dalla mia presenza. La zona è completamente deserta, non c'è traccia di anima viva. Verifico l'ora sull'orologio da polso: ventitré e quarantacinque. Rimpiango di non essere giunto in anticipo, devo scortarla fino a casa. Interrompe il flusso del concetto, non oltrepassa il ciglio della strada. Introduco i palmi nelle tasche, oscillo per il gelo. Raggiungo la moto con riluttanza, offro il mio aiuto, ma reclina. Lo indossa senza difficoltà, dispiaciuto compio lo stesso. Avrei voluto tastare con mano l'epidermide morbida e fresca. Non emette una sola sillaba, puntualizza la strada da condurre e impugna il chiodo ad ogni svolta. Il quartiere in cui vive è molto lontano dal mio, le case sono agiate e ricche di spazi verdi.
«Siamo arrivati! Puoi fermarti qui!» grida. Le luci dell'abitazione sono accese, i suoi genitori sono in casa. Ci sono due auto nel vialetto e una piccola bici rosa accanto allo steccato. Smonta e rimuove il fermacapelli, il profumo di cocco inebria l'olfatto.
«Mi scuso per l'atteggiamento di poco fa» asserisce.
«Non mi divertivo così da molto tempo» accosta le scarpe, stringe la cinghia.
«Allora, ci vediamo in giro?» interroga. La scommessa riemerge all'interno del senno, cosa dovrei fare? Cosa dovrei dire? Puoi innamorarti di me, così che tutta questa farsa abbia una fine prematura? Non attende una sentenza, si volge nella parte posteriore. Isso il casco sulla testa e il piede sul cemento. Il motore è acceso, riecheggia come un animale in gabbia. Il fondoschiena è imbacuccato dal soprabito, ma niente potrebbe avere la capacità di farmi ragionare il contrario. Raisa è raggiante, risplende nella notte buia.
«Ehi!» strepito, il tono fuoriesce piuttosto intimo.
«Dov'è la mia ricompensa?» esibisco il miglior sorriso in circolazione. Procede velocemente innanzi a me, protende le labbra verso la guancia e fila via come una ladra in un negozio di caramelle.
Lo schiocco è impercettibile. Sul serio? Sfrego il retro della nuca, amareggiato. Cosa mi aspettavo? Un bacio alla francese? Ride e accorre sul pianerottolo.
«Ci vediamo in giro, Hendrick Anderson» strizza l'occhio, sventola la mano e pone fine alla connessione. Integro con uno scatto, il piede sulla leva e decollo sulla carreggiata deserta. Percepire il mio nome, da una persona che non sia Zio Dom, è insolito. Le avevo conferito di non esercitarlo in altre condizioni, non credo che voglia scoprire tutto ciò che ha da seppellire. Non è solo un nome, ma IL nome. Perché, o non significa niente, o perché significa TUTTO.

#spazioautrice
Piccolo Ritardo, lo so.
Quanto sono belli questi due insieme? Io amo Raisa è così vera da far paura. L'ultima frase non è lasciata al caso, ma vi prometto che comprenderete molte cose nel prossimo capitolo.
Per qualsiasi spoiler, informazione ecc...
Sono su ig come: _fatimaonwattpad_
One Kiss.🌻🐞

𝑭𝒊𝒐𝒓𝒊 𝑵𝒆𝒍 𝑩𝒖𝒊𝒐.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora