KEIRA CAPITOLO 26

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Nel palazzo, all'apparenza, non ci viveva nessuno, ma era tutto ben tenuto e in ordine. Salimmo all'ultimo piano e entrammo nella prima porta. L'appartamento sapeva di chiuso, c'era un piccolo salotto e una porta che portava in una cucina, sulla sinistra un ingresso che conduceva forse alla zona notte. Le imposte erano chiuse e Jackson non le aprì. Buttò su un tavolo la pistola e si tolse la giacca. Rimase con una maglietta nera e dei pantaloni militari. Mi indicò il divano e io mi accomodai. Andò verso la cucina e tornò con del succo di frutta e due bicchieri. Si avvicinò ad una credenza, la spostò e alzò un asse da sotto il pavimento. Tirò fuori una bottiglia senza etichetta con del liquido bianco.

"Vodka" aggiunse senza guardarmi e ne versò un po' in entrambi nei bicchieri e ci aggiunse del succo. Si avvicinò e me ne porse uno.

"Bevi" e il suo lo buttò giù tutto d'un sorso.

Presi il bicchiere e lo portai alla bocca, ne bevvi un po' e il liquido mi bruciò la ferita. Cercai di trattenere una smorfia di dolore e mi toccai il labbro.

"Serva anche per quello" disse piano.

Tenni il bicchiere tra le mani e poi mi guardai intorno. Volevo evitare il suo sguardo, mi rendeva nervosa ed ero ancora arrabbiata, avrei voluto che mi riportasse a casa e mi lasciasse sola. Jacks invece non faceva che fissarmi e quello sguardo era così insistente che faceva quasi male. Era come se sentissi un fastidio nel punto esatto in cui i suoi occhi andavano a posarsi.

Mi ero ripromessa di tacere e ascoltare perché mi aveva dimostrato che ero solo una pedina e dovevo rimanere in piedi, come non aveva importanza, ma  al solito non ci riuscii. Era in grado di tirare fuori il peggio di me.

"Smettila di guardarmi" sibilai.

"Che cazzo hai combinato?" bisbigliò senza prestare attenzione a ciò che gli avevo detto.

Aveva quel modo di piegare la testa di lato e di alzare appena il sopracciglio che rendeva il suo volto qualcosa di impossibile da non guardare. Era ammaliante e mi confondeva.

Distolsi lo sguardo e fissai la cucina.

"Non ho fatto nulla" sospirai. Avrei dovuto dirgli la verità, ma non mi importava, che se la scoprisse da solo.

"Perché Paul ti ha mandato da Porter?" insisté.

"È un interrogatorio?" chiesi con un sorriso finto.

"Senti ragazzin..."

"NONCHIAMARMI COSI'!" urlai, scattando in piedi. Non ero una ragazzina e non avevo intenzione di continuare a sopportare le sue umiliazioni. Quella parola era peggio di una pugnalata, non so il perché, ma mi feriva e non volevo che la pronunciasse, non dopo quello che aveva detto a Porter e dopo quello che avevo fatto la sera precedente.

"Togliti la maglia" mi disse deciso. Il suo tono di voce era ancora più cupo di un attimo fa e sentii una morsa allo stomaco.

"Cosa?" ero confusa.

Mise una sedia in mezzo alla stanza, si avvicinò  a me e prese i lembi della maglia e me la sfilò senza che potessi fare nulla per impedirlo  e mi fece sedere, mettendosi alle mie spalle. Indossavo solo il reggiseno e mi cinse le braccia intorno alla vita per coprirmi. In tutto ciò mi resi conto che non avevo paura, non ero spaventata o preoccupata. Stavo impazzendo.

Mi scostò i capelli da un lato e con le dita percorse il collo, la clavicola fino ad arrivare appena sopra il mio seno. Stavo trattenendo il respiro, ma rilassai le braccia. Il suo tocco era deciso, ma delicato e la morsa allo stomaco si fece più intensa. Perché quando mi toccava, mi sentivo così?

Si avvicinò al mio orecchio e sussurrò " Tempo fa mi hai chiesto se volevo scoparti o salvarti e io ti ho fatto la stessa domanda, anche se conoscevo la risposta. So che vuoi essere salvata e ti sto proteggendo da molto più tempo di quanto tu pensi, ma non mettere alla prova la mia pazienza, chiaro?"

Chained La lottaWhere stories live. Discover now