Chapter thirty-three

2.9K 154 201
                                    

Jason

8:00 in punto.

L'inizio di un'altra di una lunga serie di giornate di merda.

I raggi del sole trapelano come al solito dalla finestra, pungendo sulla mia pelle in modo fastidioso. È una giornata abbastanza calda, nonostante sia fine novembre. Il sole è alto in cielo, l'azzurro di quest'ultimo completamente libero dalle nuvole, il cinguettio degli uccelli risuona perfino fin dentro la stanza...

Che tortura.

Mi alzo dal letto sbuffando, nonostante la mia voglia di uscire da queste quattro mura sia pari a zero, e sbadiglio.

«Buongiorno anche a te, Miller.» mi saluta Richard con il suo solito entusiasmo del cazzo.

Lo ignoro e mi dirigo in bagno, fermandomi davanti allo specchio.

Tuttavia, non mi concentro tanto sul mio viso, quanto sui capelli, che mi affretto a sistemare con una mano.

Subito dopo, come ogni mattina, mi precipito nella doccia per togliere via qualsiasi residuo delle serate precedenti. Aziono il getto e lascio che l'acqua percorri ogni singolo millimetro del mio corpo.

Improvvisamente, mi viene in mente Lotts e, in particolare, l'ultima volta che abbiamo parlato. È stato una settimana fa, prima della partita. Ghigno ancora nel ricordare il modo in cui ansimava contro il mio orecchio o in cui tentava di scostarsi da me. Non è mai riuscita a farlo in tutti questi mesi, perciò sapevo che non lo avrebbe fatto neanche quella volta. Perché la verità è che la piccola fa di tutto pur di starmi lontana, ma non appena la sfioro o semplicemente mi avvicino più del dovuto, ogni sua singola funzione nervosa sembra vacillare. La ragione passa in secondo piano e lascia spazio soltanto a un puro e magnifico... desiderio.

Sorrido compiaciuto, avvertendo ancora la sua intimità che si sfrega sulla mia mano, e mi lecco le labbra. Il sapore della sua pelle non vuole andare via, e a me sta bene così.

Con un rapido flash, però, ecco che mi riaffiora alla mente anche un altro momento. In particolare le parole che mi ha detto le ultime volte che ci siamo incontrati:

"Non mi interessa ferire un bambino traumatizzato da chissà cosa che scopa per non pensare."

"Adesso capisco perché le persone attorno a te sentano la necessità di drogarsi"

Serro gli occhi, avvertendo l'umore cambiare improvvisamente.

L'ha detto per provocarti, non lo pensava. Cerco di ripetermi queste parole come se fossero un fottuto mantra. Inizio persino a pronunciarle ad alta voce, per renderle veritiere, ma non ci riesco. In realtà so benissimo, dentro di me, che è così. Lotts aveva ragione quando le ha pronunciate.

Sono solo un bambino traumatizzato che porta le persone a stare male. Le distruggo le anniento come se fossero fragili foglie d'autunno. Le calpesto senza neanche rendermene conto proprio quando hanno bisogno del mio aiuto. Distruggo i momenti belli della loro vita per il semplice obiettivo di condividere con loro la mia oscurità.

È quello che ho fatto con mia madre e che ho cercato con tutte le mie forze di evitare con Lotts.

Non me lo sarei mai perdonato.

Eppure, a quanto pare dalle sue parole, non ho fatto altro che peggiorare la situazione: ho lasciato che soffrisse, che stesse male per me. Le ho sbattuto in faccia ogni dannatissimo giorno che tra noi era tutto finito, che doveva andare avanti.

L'ho fatto per proteggerla, perché non sono egoista. Sono queste le parole che mi sono ripetuto fino allo sfinimento la sera in cui è scappata da Santa Rosa.

(Im)possibleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora