Capitolo 41 (II). Una voce

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«Sì gattino, ma. . . pian piano la tua micia riuscì a sollevarsi, poco per volta. E, sai, forse più degli antidepressivi, più dei colloqui con lo psichiatra, ebbe successo il prete, questo, quello che tra poco incontreremo, quello che ci sposerà, Don Benedetto. E vuoi sapere come?»

«Sì, certo, micia. Dimmi.»

«Mia madre insisteva per farmi ritornare in chiesa, anche non da credente, ma almeno per riprendere a vedere gente, gli amici di un tempo. Per molto tempo mi ero rifiutata, ma poi mi ero lasciata convincere, anche solo per fare due chiacchiere; un giorno volli venire qui da sola e il don parlò con me per un poco passeggiando qui in chiesa, e poi ci fermammo qui, proprio qui, dove siamo ora. Ti sembrerà strano, non è una coincidenza: ero seduta con lui proprio su questa panca, di fronte a questa vetrata di San Giovanni Battista.»

Con la mano indicò il Santo con un gesto delicato, verso la parete, sorrise a Marco, riprese a parlare:

«Il don fece proprio questo gesto, gattino, come se volesse presentarmelo, anch'egli non si era fermato qui a caso e mi chiese: "San Giovanni battezzava, ma cosa vuol dire battezzare Anna?", io risposi: "entrare nella Chiesa, si battezzano i bambini, vero?", "Sì, ma non solo", mi rispose: "egli era la "Voce che grida nel deserto", Anna, diceva: <Preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri>" e poi. . . poi abbassò la mano, me la pose sul capo e disse queste parole guardandomi fisso: "Anna, non si possono raddrizzare le strade già dritte; non si possono riparare le cose che funzionano; non si possono curare le persone sane; non si possono consolare le persone già consolate; non si possono perdonare le persone che non hanno sbagliato; non si possono portare in vita i morti ma si possono consolare i vivi".»

Anna stette un poco in silenzio: a capo chino, come ricordando quell'episodio con la mano del don in testa. Riprese a parlare con le mani giunte in grembo che tenevano quelle di Marco.

«Capii cosa voleva dire, gattino: lo capii qui, su questa panca, forse fu lo Spirito Santo a farmelo capire in quel momento, può darsi, quelle parole mi aprirono la via; capii cosa voleva dire il don: che il Male era necessario perché il Bene potesse agire: fu come un lampo che segnò l'inizio della mia guarigione; è per questo che mi sono fermata qui con te, che sono devota a questo posto, a questo Santo; ripresi a pregare, a venire in chiesa, a fare l'animatrice, ovviamente senza Luca. Presi l'impegno di fare del bene; è vero, non potevo riportarlo in vita, ma potevo fare altro, prendere il cammino di mio papà, diventare medico, consolare, nel mio piccolo, aiutare un poco persone che soffrivano.» 

Marco, mentre Anna parlava,  aveva alzato gli occhi verso la vetrata; il Santo era lì, a indicargli il Bene che ha bisogno del Male per agire, come in una specie di gioco a incastro in cui scegliere cosa fare diventa in realtà scegliere dove si vuole osservare, un punto di vista; la morte di Luca avrebbe potuto essere la morte di Anna, ed era diventata la sua rinascita. Stette a pensare un poco dopo il suo discorso, anche per lui l'abbandono di suo padre avrebbe potuto essere la sua fine, il suo perdersi come bambino e poi come uomo, e si accorse che era stato invece l'inizio con sua madre che l'aveva portato fin lì: laureato con una sposa promessa a fianco che lo amava. Anna proseguì:

«Pian piano cominciai di nuovo a vivere. Gattino, te la ricordi quella foto che c'è in villa? Quella sul mio letto?»

«Quella. . . sì, quella in cui hai un abito lungo bianco.»

«Sì, esatto, quella. . . fu fatta l'anno dopo, praticamente festeggiai i miei diciotto anni quando ne avevo già diciannove; non avevo ancora lo spirito di fare la festa in villa, proprio quasi nell'anniversario della sua morte, ma i miei mi convinsero ad andare al ballo delle Debuttanti, fatto qui a Genova, a Palazzo Ducale, per distrarmi un poco, vestirmi bene. . . ero ritornata abbastanza in carne, non così magra insomma, ma neppure avevo raggiunto il peso di prima, forse indossare un vestito bello mi avrebbe fatto piacere, mi avrebbe dato la spinta per recuperare del tutto: ovviamente non era la stessa cosa di una festa, ma fu il vero inizio della mia rinascita insieme al cominciare medicina, per quello la foto è rimasta lì. Mi ricordo il cavaliere che mi avevano assegnato in quella sera, un ragazzo molto intelligente devo dire, uno dei cadetti della scuola militare, veniva da Napoli, si sentiva come accento, non mi ricordo bene il nome, forse Salvatore, aveva una fidanzata che lo aspettava, faceva quel ballo giusto per passare il tempo, o forse era anche pagato; aveva capito che avevo qualcosa di brutto e mi disse una frase che ricorderò sempre: "Anna ti conosco poco, ti vedrò solo questa sera ma ti voglio dire che qualunque cosa tu abbia poi passerà, vedrai, si può esser felici dopo il dolore e si sarà felici due volte". Aveva ragione: non lo vidi mai più, ma quella frase la porto ancora adesso nel cuore, curioso, vero? Dopo quasi sei anni risentire quella frase in testa e ringraziarlo mentalmente perché ora sono felice due volte con te, gattino, per me adesso e perché stai rendendo felice quell'Anna che si stava lasciando morire.» 

Dolore e perdono (Parte VII. La tragedia)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora