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Alberto Recatto era stato condannato a due ergastoli per la brutale uccisione di due donne, avvenuta nel 2019. Dopo il processo l'avevano spedito al carcere di Nuoro, dove era rimasto diciannove mesi, prima di essere improvvisamente trasferito, senza nessun preavviso, senza nessuna spiegazione. La mattina del 15 settembre 2021, nove mesi prima che il centro di Bologna venisse raso al suolo, lo portarono a Olbia e lo misero su un aereo. Atterrato a Bologna lo fecero salire su un pulmino con le tendine abbassate e gli fissarono le manette a un gancio del bracciolo. Davanti a lui c'era un tizio, a testa bassa, pure lui ammanettato; sembrava dormire. Al loro fianco due guardie, incaricate della sorveglianza; l'autista era nascosto da un plexiglass oscurato. Gli fu intimato di non aprire mai bocca e di non emettere nemmeno un fiato, neanche per chiedere di fare soste fisiologiche, perché non si sarebbero fermati se non all'arrivo. Il viaggio durò sei ore e mezza e non aveva la più pallida idea di dove lo stessero portando, se non che erano diretti in un qualche posto di montagna. Nell'ultimo tratto infatti avevano affrontato una strada in salita e piena di curve.

Quando il pulmino s'arrestò era quasi sera. Le guardie fecero scendere i due prigionieri e li consegnarono ad altri tre uomini che attendevano in uno spiazzo. Risalirono e se ne andarono. I nuovi secondini formavano il gruppo più disomogeneo che Alberto avesse mai visto. L'uomo di mezzo aveva lineamenti duri, a partire dalla mascella quadrata che circondava due labbra sottili; il naso era grosso e appuntito, i capelli corti e a spazzola, talmente ispidi da dare l'impressione di potersi forare nel metterci la mano sopra. Gli occhi erano piccoli e neri, privi di qualsiasi emozione. Era alto come lui, ma molto più largo di spalle. A prima vista pareva un tizio che era meglio non contraddire mai, tantomeno innervosire. Alla sua destra stava un vecchio un po' ingobbito e con il viso completamente ricoperto di rughe, tanto profonde da sembrare essere state tracciate con un pennarello. La terza guardia era un ragazzo obeso, dalla faccia pulita e lo sguardo neutro. Al cospetto degli altri due, sembrava essere lì solamente per un puro caso.

L'aria era fredda e Alberto si ritrovò a battere i denti. Il suo compagno di viaggio non aveva mosso un singolo muscolo per tutto il tempo, e anche ora, nonostante fosse in piedi, di fianco a lui, aveva una postura talmente abbandonata da sembrare essere sostenuto da un palo invisibile. Tranne che per i muscoli della faccia: teneva la testa bassa, ma Alberto scorse gli occhi fissi sulle guardie, quasi senza sbattere le palpebre, e le labbra, tirate in un ghigno quasi da clown, in cui però non si scorgeva nulla di divertente.

Erano stati scaricati davanti a un grosso massiccio, roccioso e innevato sulla cima, ma che scendendo, si addolciva in un declivio alberato di sempreverde, interrotto dal largo piazzale sul quale si trovavano, fiancheggiato, sia a destra, sia a sinistra, dal proseguimento del bosco. Alla base del pendio, a circa cinquanta metri da dove le tre guardie li avevano presi in custodia, si ergeva, minacciosa e dominante, una costruzione dai muri completamente bianchi, formata da più edifici, che parevano essere stati costruiti altrove, portati lì successivamente e assemblati in tempi diversi. Tra loro spuntava un bel campanile con una guglia di ferro nero. Poteva (e pareva) essere stata un'abbazia, se non altro per la posizione in cui era stata edificata; l'ultimo tratto di strada che avevano affrontato col pulmino era in forte pendenza, chiaro segnale che si trovavano sulla sommità di uno dei tanti monti che riempivano la vista tutt'attorno. L'edificio era stato chiaramente ristrutturato e Alberto notò, con una rapida scorsa, che nessuna delle parti che lo costituivano sembrava fungere da chiesa. Gli risultò molto evidente che là dentro non avrebbe trovato nessun frate. «Dove siamo? Perché ci avete portato qui?» si azzardò a chiedere al carceriere coi capelli a spazzola, che l'aveva prontamente preso sottobraccio per scortarlo.

Nemmeno si accorse della mano dell'uomo scattata sul manganello che aveva appeso alla cintura; sentì solo un dolore lancinante al ginocchio sinistro, quando fu colpito. La gamba gli si piegò e si accasciò a terra. «Tu parli solo se sei interrogato, stronzo di un ergastolano, chiaro? Altrimenti, la prossima volta il ginocchio te lo spezzo. E ti posso assicurare che stare qui dentro con qualcosa di rotto non è piacevole! Tiratelo su! E fateli muovere.»

VuEffe (parte 2) - L'abbaziaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora