Non importa da dove, non importa verso dove | @EnzoLiburni

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di EnzoLiburni

La musa che ha ispirato questa prosa poetica è Calliope, la musa delle arti figurative e dell'elegia.

Non importa da dove, non importa verso dove

Torno a casa dalla stazione – stazione: passaggio, routine, andata e arrivo, luogo anonimo e scontato, sempre visto e mai visto – da non importa dove e non importa verso dove.
Mi trovo a passare, come cento o mille altre volte, dalla via principale che mena al mio appartamento – mio appartamento: bilocale scuro, anonimo e casuale; semi-periferico, ma la città non è grande, quindi dai è comodo – e, mentre così vado senza scopo senza meta, senza sapere perché e dove, mi guardo attorno.
Guardo quella via, quella strada, quello scorcio, quel negozio, quell'angolo: viste una miriade di volte ma non mai viste veramente, mai vissute e fatte proprie; mai entrato dentro di loro; sempre passato vedendo e mai guardando; come passante e straniero e paesano di nessun luogo. Ero una volta insieme a compagni, o amici o altri passanti che, insieme a me, condividevano un tratto di strada dalla scuola alla stazione, dalla stazione al centro, dalla fanciullezza all'adolescenza, dalla preadolescenza all'adolescenza – adolescenza: stato limbico, inconsapevolezza umorale, furore sordo e represso, desiderio folle e allucinato, ira sopita e ribollente, amore tenero e glaciale, eloquio incerto e triviale.

Coi compagni di strada si andava talora in centro il sabato pomeriggio – la sera, no: film a casa poi immobile nel letto a immaginare sognare sentire viaggiare, non importa da dove e verso dove, perché e con chi: pezzi di frasi di suoni di immagini di persone di sensazioni di sferzate di tenerezze, senza un nome, persi nel diaframma tra la notte, il sonno e l'alba, e sempre ricomincianti ogni sera, ogni notte e ogni volta che, tornando da scuola, a novembre, coglievo scorci di alberi con foglie gialle, tremanti, morenti. Le vedevo come sfondo inerte, non parlavano ma comunicavano qualcosa dentro di me, in silenzio, di nascosto. Ora le rivedevo all'improvviso. Novembre di vent'anni dopo, e le vedevo per la prima volta, per la prima volta so che mi erano entrate dentro. Le sento.

Passo per la via e, davanti a me, in fondo alla strada, l'appartamento vuoto e scuro. Giro a destra, verso le stradine del centro. La piazzetta dietro i negozi del corso. Mi fermo. Aspetto. Ora vedo. Una panchina; il grande magazzino; il giardinetto. Ecco, ora sento le cose. Vedo le strade, gli spiazzi, quel porticato, quei palazzi, quella panchina dove con Giacomo e la Silvia eravamo andati un pomeriggio. Attorno a me, le cose sono innervate di vita, di immagini; mi chiamano e comunicano, cantano una canzone dimenticata al margine della memoria e del passaggio casuale del tempo. I frassini rilucono di fiamme sopite; le foglie sospese immobili non cadono più. Ora sono uno con le cose; appartengo loro: pulsano e fremono con me.
Prima giacevano come pietre tombali mute e fredde: superfici estranee e morte, su cui gli occhi scorrevano e che il passo percorreva muto e straniero, celavano le immagini e i colori di quel pomeriggio di novembre di vent'anni prima. Tredicenni, con Giacomo e la Silvia. Ora ripasso di lì, per quella piazza. Rivivo il sabato pomeriggio di novembre. La panchina dove eravamo seduti; il bar dove avevamo bevuto la birra – Giacomo dimostrava più anni, forse più di quattordici; il negozio di cancelleria al grande magazzino, dove avevamo rubato i pennarelli.
Sono ancora lì, ora, in questo momento, con loro; coi pennarelli, sulla panchina, con Giacomo e la Silvia – Silvia: compagna di classe amica di Giacomo, più grande e matura della sua età; girava da sola, diceva, a Milano di sera, fumava e sapeva le cose dei grandi. Cosa fanno tre tredicenni nel giardinetto dietro la piazza, fuori dall'uscita secondaria del grande magazzino? Stiamo sopra un tappeto di foglie di sfumature rosse, gialle, verdi, ocra, marroni, brune. I frassini in fiamme bruciano sulle nostre teste; le foglie precipitano come stille di fuoco. Le galassie esplodono sopra e attorno a noi; le supernove distruggono e riscaldano universi bui e freddi di solitudine. E io sono lì. Sono. Noi siamo; esistiamo in quel luogo in quell'istante. Ci guardiamo e sappiamo che siamo insieme, lì, adesso. Non importa sapere che cosa dire, che cosa si dice, capire perché, per quale scopo e per quanto.

Siamo insieme ed esistiamo, adesso, allora e per sempre.

Basta un attimo, senza parole. Basta sentire e abbandonarsi. Non c'è più niente d'altro, niente di freddo o indifferente o di passaggio. Ora e sempre siamo lì sotto le foglie che cadono e sopra le foglie che raccolgono le impronte dei nostri piedi. Quell'attimo è la vita e non occorre altro, tutto me stesso vi è dentro e pervaso.

Poi tutto riprende a passare. La superficie immobile grigia e fredda delle cose, degli edifici, delle macchine, delle vetrine dei negozi vuoti e abbandonati, dei palazzi residenziali e silenziosi, delle voci casuali. Le cose insignificanti e di passaggio che trascorrono e si perdono nel vuoto eterno.
Ora vedo che tutto è cambiato: la panchina non è più lì, il grande magazzino è una serranda chiusa e polverosa, il giardinetto è un'aiuola per cani. Anche io sono cambiato. Solo, riprendo la strada e ritorno sulla via principale; riprendo a passare, a seguire il percorso dalla stazione all'appartamento, non importa da dove non importa verso dove. 

Viaggio in EliconaWhere stories live. Discover now