[ VI ] ↬ serpe

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“E hai dentro un ospedale,  ma non ci voglio più entrare,  che tanto so che per te è lo stesso  E anche se non vale niente  prendo tutto il nulla che mi dai” 

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“E hai dentro un ospedale, 
ma non ci voglio più entrare, 
che tanto so che per te è lo stesso 
E anche se non vale niente 
prendo tutto il nulla che mi dai” 

Passi svelti e rumorosi condussero Felix a casa, il quale si lasciò alle spalle la porta sbattendola con forza e lanciò in qualche punto non ben definito del pavimento lo zainetto che aveva portato con sé.

Con il fiato corto e gli occhi che straripavano di rabbia e di lacrime, si lasciò cadere sul pavimento lasciando che il suo sguardo si scontrasse con il soffitto, e ne ammirasse il bianco polveroso, che man mano veniva ricoperto da un velo sfumato di lacrime. Prese un respiro profondo, cercando di nutrire i polmoni al massimo della loro capienza, poi lasciò scappare l'aria velocemente, come in un urlo silente.

Trattenere i singhiozzi richiese uno sforzo abnorme, che fece traballare il suo mento mentre la mandibola attendeva di potersi schiudere in un urlo rumoroso quanto autentico.

Se avesse dovuto dare un nome a ciò che stava provando in quel momento, probabilmente, sarebbe rimasto zitto, attonito. Non era confuso, no, era consapevole di essere un intriglio turpe di rabbia e delusione, un miscuglio laido di tristezza e stanchezza. Eppure, non sapeva quale fosse il motivo, cosa dipingesse con quei sentimenti scuri la sua figura.

Era forse colpa di Hyunjin? Del mondo squallido che l'aveva costretto in quelle condizioni? Oppure si era semplicemente macchiato da solo? Non trovava una risposta, ma si sa, è sempre facile trovare qualcuno da incolpare. Chiunque gli fosse passato per la mente in quel momento sarebbe stato il soggetto perfetto a cui attribuire qualsiasi demerito, avrebbe voluto scaraventare la sua collera su chiunque gli fosse stato accanto.

Ma, accanto a lui, non c'era proprio nessuno.
Era lì, in compagnia del silenzio pungente protagonista di quella stanza e dello zainetto che, tacito, lo osservava in un angolo sostenuto dal suolo.

Nessuno mai era rimasto con Felix, nessuno se non la solitudine, che come una serpe calunniatrice, elegante e baldanzosa, scivolava sulla sua pelle, risoluta, e ne siglava ogni centimetro con il suo veleno, che nocivo penetrava attraverso i pori e imbrattava qualsiasi cosa positiva si celasse tra i suoi pensieri.

E, stranamente, quella solitudine infida, era sempre rimasta al suo fianco, fida e devota, e si era presa anche la briga di attribuire a sé stessa il compito di stringere forte il suo cuore tra le sue squame, nella sua viscida morsa, per rubargli ogni chimera e prendere in possesso il suo fiato.
Lo strappava dal suo petto, violento, e se lo teneva per sé, lasciandolo bruciare crudelmente nella sua presa.

Avvolgeva con brutale finezza il suo collo e con la sua lingua bifrcuta tastava il sapore del suo miocardio infranto più e più volte, finché non lasciava i denti affilati affondare nelle sue carni per rilasciare ancora in lui quel prezioso veleno, che come sale sul ghiaccio, si insinuava in lui distruggendolo, infangando la sua purezza, rendendolo un angelo soffocato dalla morsa demoniaca di un rettile strisciante che risucchiava la sua luce.

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