1.30 ● MALEDETTA MORFINA

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La parete con la carta dorata mi fissava. La luce invadeva la stanza dalla finestra dell'hotel. Ero solo.

Nella mia mente era tutto poco chiaro, la discesa delle scale a casa mia era l'ultima cosa lucida che ricordavo.

Chiusi gli occhi e i flash di un cinema muto si stamparono sulla retina.

Il volto troppo truccato di Taryn, le sue labbra che si muovevano, gli occhi carichi di odio e di lacrime. La frusta che arrivava sempre più vicino.

Era un'assurda attrice di un film muto drammatico e io ero un fantoccio nelle sue mani, ero quello che voleva lei. Ciò che aveva sempre visto in me e quello che le avevo lasciato fare negli ultimi anni.

Le parole di mio padre mi ritornarono in mente come una campana a funerale. «Se non fosse stato per Deanna e il suo esempio come persona, non avrei avuto la capacità di affrontare le tue scelte.»

Taryn non era stata una scelta, ma una conseguenza. E fino a che non mi ero perso in quel verde ipnotico, io non avevo mai messo in discussione nulla. Tiravo avanti, come un'anima dell'Ade, senza coscienza, passato presente o futuro. Per non sentire male nel corpo come nella coscienza coprivo i miei segni come i sentimenti verso me stesso o gli altri.

Mi aggrappai a una melodia lontana e tornai a cantare. Mi tenevo al filo di Arianna della mia canzone. Era composta da un paio di gambe piene e avvolte in jeans sbiaditi e due occhi verdi determinati.

Vaffanculo, Taryn. Lei è migliaia di volte meglio di te.

«Forse mio padre ha ragione. Mi sto identificando troppo in fangirl. Lei non è certamente come me. E magari mi sono immaginato tutto, mi sto preoccupando troppo. La storia del cibo, forse è solo una questione di nervoso, del fatto che la ragazzina si deve ambientare.»

Deliravo ad alta voce, la mia mano continuava a stringere il tubetto con le pillole. Nel momento in cui mi girai tra le lenzuola, ogni muscolo gridò dentro di me; il cotone era carta vetrata sui segni delle torture che non avevo visto, ma che sapevo bene dov'erano.

La morfina che mi dava Taryn durava giusto quel tanto per rendermi cosciente il pomeriggio del lunedì, separandomi dal sabato di torture, sospeso nel tempo grazie ad anestetici e antidolorifici che mi incasinavano ancora di più la testa.

I muscoli ventre si contrassero.

Il bagno, devo raggiungere il bagno in tempo.

Lottai contro il dolore che paralizzava i miei movimenti e feci appena in tempo a ficcare la testa dentro alla tazza del gabinetto e il mio stomaco si liberò.

Le pareti della stanza si muovevano e non erano a fuoco, le botte bruciavano, i polsi erano di nuovo segnati da lividi rossi.

Fissai i marchi scarlatti e qualcosa affiorò nella mia mente. Strisce di caldo e umido mi percorsero il viso. Una riga, poi un'altra e un'altra ancora. Tolsi dalla mia vista quei segni, ma le lacrime non se ne andarono.

«Scusa. Scusa. Ti prego, perdonami.»

Juno. Perché le sto chiedendo scusa? Lei non c'entra. Lei non deve sapere.

I muscoli delle gambe erano corde dure e indolenzite mentre mi spingevo sulla tazza e mi rimettevo in piedi. I singhiozzi mi scuotevano, uniti al capogiro della morfina, mi facevano sbattere da una parte e dall'altra sulle mattonelle, aumentando il mio dolore.

Uscii dal bagno e mi appoggiai allo stipite. La porta della camera era aperta, Juno mi stava fissando immobile, gli occhi mi stavano giudicando, inflessibili. «Mi hai imbrogliata. Non sei un secchione, sei un impostore.»

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