1. Articolazioni

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D. era fermo al semaforo da ormai 10 minuti abbondanti.

Il semaforo di via monte bianco non portava lo stesso prestigio del monte affidatogli.
Era una via secondaria, malmessa, discretamente dimenticata dal mondo.
La via Monte Bianco terminava con un incrocio dove non risultava strano trovare copertoni, scarpe, pezzi di lamiera, oggetti che nessuno sarebbe più tornato a reclamare - no, non ne avrebbero avuto bisogno dall'altra parte dell'anima.
Alla fine della via c'era una villa infossata in un grosso avvallamento, come se un giorno il territorio appartenente alla casa avesse deciso di sprofondare, cercando in qualche modo un contatto più caloroso con il centro della terra. La via era decisamente oscura, intrisa di sentori mistici ed emozioni notevoli sebbene stranamente opaca.
Se via monte bianco fosse stata un colore, sarebbe stata un verde scuro. Quel verde scuro che si trova nei boschi al crepuscolo, assieme all'odore di muschio e muffa che, forse a causa di qualche primordiale imprinting, riporta comunque ad un odore di madre - Madre Natura.

Ah, che luogo impervio.
D. stava ancora aspettando.

I muri di quella via erano ricoperti da vegetazione.
Erano per di più edere e rampicanti egoisti, di quelli che - se potessero - ingloberebbero pure i passanti. L'umidità di quella strada, completamente diretta verso nord, era notevole. I muri sembravano costantemente bagnati tanto che le case avevano un prezzo irrisorio, nessuno avrebbe abitato in un luogo tanto ostico verso i reumatismi.
La luce tuttavia esisteva. Erano per di più fasci di luce dorata e prorompente, una luce quasi estiva ma mai diretta. La luce passava sopra alla via come se fosse un'autostrada celeste, portava alla mente quei carcerati che, nonostante la vita li avesse chiaramente abbandonati, non smettevano di guardare il cielo dalle fotografie sbiadite.

Che fosse la morte a rendere quella strada così opaca?
Tutto in quella strada pareva morire, l'edera scrosciava dai muri come un'emorragia, i muri si rompevano come ossa senili e le crepe non rimanevano mai composte, si frastagliavano in sezioni che nemmeno una protesi avrebbe aggiustato. L'asfalto era sbiadito, scolorito, ricordava il livor mortis di una civiltà antica, troppo giovane per essere archeologica, troppo anziana per essere moderna. Le finestre erano quasi sempre chiuse. I pochi temerari che scelsero via monte bianco per abitare se ne guardavano bene dall'aprire le finestre a quell'aria fredda e umida, un'aria con la stessa consistenza delle anime che trasmigrano.
Alla fine della strada eccolo lì, impettito: il semaforo infinito.
D. era ancora in attesa di qualcosa che gli facesse capire che non sarebbe invecchiato in quel luogo.

Quel semaforo viveva in un'epoca a sé stante, senza riferimenti temporali. I minuti duravano ore e le ore duravano minuti, D. sapeva che non ci avrebbe passato anni a quel semaforo, ma ore forse sì.

D. cominciò a pensare.
Cosa lo spingeva ad attendere la luce verde? Seriamente, non poteva forse fare inversione?
Oh, no signore.
Proprio no.
Quante macchine aveva già visto abbracciare quei muri fragili ma irremovibili? Quante persone avevano oltrepassato lo Stige grazie a manovre azzardate come quella?
Non sarebbe mai dovuto uscire di casa.

D. cominciò a pensare a tutto ciò che era accaduto quel giorno. Il semaforo, il rischio dell'incidente, il caffè troppo lungo, l'asse alzato, il telefono che squillando lo distraeva alla guida.
Nel mentre, la radio passava Wild World di Cat Stevens.
Era un mondo selvaggio, quello di D.
Sarebbe stato meglio stare a casa, nel tepore delle mura domestiche.
L'aveva capito dalla mattina stessa quando, cercando le sue pantofole, trovò il gatto che si affilava le unghie sull'unico paio di scarpe di valore del suo armadio, quelle blu di vernice delle occasioni speciali.
Quando le giornate cominciano così, pensò, non vale la pena uscire di casa.

D. si svegliava ogni mattina.
L'atto dello svegliarsi non è da sottovalutare, è un estremo atto di coraggio nel mondo di una persona come D.
Adorava i toast alla marmellata, ma spesso l'atto dell'abbrustolirli nel tostapane diveniva una compulsione troppo rischiosa, portava troppi fattori che potevano andare storti: se si fosse bruciacchiato, il gusto non sarebbe stato lo stesso.
Era fondamentale la marmellata di kiwi.
Ora, in realtà, di fronte al semaforo color carminio, D. stava valutando l'idea di assaggiare la marmellata di lamponi. Anche i lamponi hanno i semini.
Su un toast perfetto ce ne vogliono almeno 3509, ma meno di 6735.

La vita di D. era pienissima, non c'era spazio per questi momenti di divagazione.
D. provava comunque un profondo riconoscimento per quel semaforo infinito, unica àncora di meditazione personale. In un mondo frenetico e quadrato, quel semaforo consentiva all'ansia di D. di riversarsi nelle membra come delle spirali di liquido nero che gradualmente avrebbe preso possesso della mente di D, fino allo "stop" allucinatorio sancito dal luminoso colore del via.
Strano a dirsi, in quella via dalle mille sfumature di verde.

Ah, se fosse nato in una famiglia di ricchi borghesi della capitale.
Probabilm.. che dico.. Sicuramente avrebbe abitato in un super attico, e la sua vita sarebbe stata perfetta. Non sarebbe dovuto uscire di casa per fare quelle cose che stringono la gola, come studiare, lavorare, stringere legami sociali.
Avrebbe trovato una sposa senza troppe difficoltà - bastava sospirare di avere qualche cifra a 5 zeri in banca e bam! come se piovessero. Spose di malaffare, ma pur sempre una valida compagnia per chi non ha voglia di impegnarsi nelle ricerche.
D. adorava il mare, anche se non l'aveva mai visto.
Nella sua mente sognava di solcare i mari come i balenieri Olandesi, ma nulla nella sua vita aveva assunto mai una prospettiva più rischiosa di quella di sbucciare un mandarino con il coltello.
Avrebbe avuto la sua nave, la sua ciurma di lupi di mare con cui ubriacarsi e parlare di donne.
Perchè no, sarebbe stato anche un bell'uomo, magari senza un braccio, perchè il suo coraggio lo avrebbe portato a fare a pugni con uno squalo balena - hei, lo squalo balena non morde però... diciamo... diciamo uno squalo e basta. Ovviamente avrebbe vinto il capitano D.
Lesse anche di numerosi archeologi della Siberia, alla ricerca di antiche civiltà sciamaniche nei confini estremi della Russia. Chiaramente sarebbe stato anche un temerario cacciatore di tesori.
Il soldi portano soldi, pensò.
E le balene? portano balene.

D. era stanco.
Per l'ennesima volta aveva sognato sua madre - che Dio l'abbia in gloria - che lo ammoniva sull'ordine errato dei calzini nel cassetto. Chissà se l'avrebbe pensato sul serio, pensò.
Quella giovane madre morì quando D. aveva solo 8 anni.
Da quel momento cominciò un susseguirsi di regole che sua madre non aveva mai espresso, ma che secondo D. lei avrebbe tanto desiderato.

I ricordi si facevano più annebbiati e gli occhi erano diventati opachi di lacrime, come la luce in quella in penombra.
Chissà che madre avrei avuto, pensò D.
Pensò alla madre di F., suo caro amico, con tutti i problemi di droga e violenze che si era portata con sè nella tomba troppo tardi, solo un anno fa.
D. aveva sentito diverse volte F. ubriaco sostenere di essere proprio un "figlio di ...".
"Nella mia vita passata devo essere stato proprio un grande stronzo per essermi meritato tutto questo. Forse sarebbe stato più magnanimo nascere orfano" sussurrò l'amico brillo a D., un giorno di qualche anno fa.
D. non lo dimenticò mai. Forse, pensò, non sapeva cosa voleva dire nascere e vivere senza qualcuno, senza sapere da che parte del mondo invisibile fosse finito: forse davvero nell'Eden o forse divorato dai vermi?
Non doveva pensare a queste cose, D.
Sua madre non l'avrebbe voluto.
La strada divenne più buia. Una nuvola coprì gli unici fasci di luce troppo impegnati per passare anche da via Monte Bianco.

Verde.
Il semaforo divenne verde.
D. non si mosse.

Una macchina, nell'altra corsia, si era fermata anch'essa al semaforo. D. doveva girare a sinistra, mentre quell'auto grigia sarebbe dovuta andare a destra.
Non erano previsti incroci, non sarebbe successo nulla.

Tic. Tac. Tic.
La freccia dell'auto ricordava dove sarebbe dovuto andare.
Tac.
Guardò dritto davanti a sé.
L'altro conducente pareva avere negli occhi la stessa paura di D.
E se si fosse dimenticato la freccia accesa e avesse intenzione di andare dritto? E se nella curva ci tocchiamo?
Perché è fermo? Cosa deve dirmi?

D. prese coraggio, con la coscienza rassegnata di un uomo che sa che una giornata del genere può tranquillamente concludersi con una tragedia. La sua.
Andò avanti piano piano. L'altra macchina fece lo stesso.
Mentre curvava, ormai prossimo al superamento dell'incrocio semaforico, mandò un'ultima occhiata all'altra auto. Il conducente lo guardava con gli stessi occhi spalancati intrisi di allerta e riconoscenza: avevano attraversato assieme l'incrocio di via Monte Bianco, e nessuno si era fatto male.

L'articolazione di quel lungo corpo buio e perso aveva creato una perfetta sintonia di movimenti.
Non solo le due auto si erano spartite uno spazio comune senza fretta e senza rabbia, ma con audacia avevano anche scelto di passarsi accanto, di guardarsi.

D. tirò un grosso sospiro, stava tornando a casa.

Forse era tempo di comprare delle nuove scarpe di pelle per i colloqui importanti, il blu - pensò - non è più di moda nelle scarpe da uomo.



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