3. Cuore

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E' tutto buio.

La stanza non era grandissima, sufficiente per svolgere le funzioni primarie.
Conteneva giusto un letto e un piccolo vano scrittura che, all'occorrenza, si sarebbe trasformato in un piccolo tavolino pronto a ricevere i pasti.

D. non si era ancora svegliato.
La signora Elefante era una simpatica infermiera con i capelli a banana, tanto solare quanto disponibile. Elefante era stata una grande infermiera durante i conflitti civili, e il suo desiderio di soccorso altrui non derivava, come spesso accade, da un profondo senso di colpa.
Elefante amava la vita in ogni sua sfumatura.

Non si sa da quanto tempo D. fosse addormentato.
Voci dicono qualche mese, altri dicono addirittura anni.
Nessuno lo sapeva con certezza perchè nessuno cercò D. durante la sua assenza.
I muri, le porte, i suoi averi si congelarono nel tempo e il loro urlo non era udibile ad orecchio umano.
Gli strani oggetti di D. erano l'unica cosa che ne avrebbe sentito la mancanza.
Forse anche la signora Elefante.

La signora Elefante non avrebbe mai accettato che un giovane, dell'età di D., restasse in una sorta di coma apparente per il resto della sua vita. Era un progetto divino discretamente ingiusto.
Non più ingiusto di altri, ma c'era qualcosa in questa storia che la toccava da vicino.

D. era caduto in questo sonno durante una lezione di meditazione di qualche tempo addietro.
"Ha raggiunto il Nirvana! L'illuminazione!" "Se non si sveglia posso sempre chiedere alla medicina generale se me lo prestano per accendere l'albero di Natale, allora."
Elefante odiava il cinismo delle sue colleghe. Amava scherzare, ma sapeva che spesso gli scherzi di T. ed F. erano volti puramente ad un sarcasmo della peggior specie.
Elefante si sedeva ogni giorno al letto di D, in pausa pranzo, per cercare di tenerlo attivo.

"Elefante smettila, tanto non ti sente!"
"Ti ho detto di piantarla di chiamarmi così. E poi non è vero che non mi sente. Ha bisogno solamente di qualcuno che creda in lui."


D. provava un profondo riconoscimento per Elefante.
Non aveva modo di dirlo, ma adorava le sue storie alla una del pomeriggio, adorava la sua voce, adorava tutto di Elefante. La lotta con cui Elefante lo tratteneva alla vita lo teneva attaccato ad ogni nuovo giorno.

Un giorno, D. si chiese se aveva mai udito il battito del suo cuore.
Si concentrò.
Non lo sentiva.
Ricordava però una sensazione fortissima, provata diversi anni prima, per una certa Jessica.

Jessica non aveva nulla di particolare, eppure era per D. una gioia nel cuore.
Jessica, pensava, meritava un nome più altisonante: Sibilla, Dafne, Europa!
Invece si chiamava come un personaggio secondario di una commedia di Shakespeare, ed esteticamente non era nemmeno un granché.
Aveva dei capelli molto lunghi e crespi, di un color bronzeo. Gli occhi erano neri come il petrolio e la pelle aveva ancora l'odore del talco. Ma quel sorriso, ah, quel sorriso pensò D.
Quel sorriso gli faceva ribollire il sangue.
Dev'essere questo che intendeva Nabokov nella sua Lolita!
Jessica era una ninfetta, una giovane ragazza che, nel fiore della sua adolescenza, attirava gli uomini come lo zucchero attira le mosche.
Ci sono ragazze così, pensò. E sono la rovina degli uomini, aggiunse.
D. amava uscire di casa e correre verso la scuola, sperando di incontrarla ogni giorno sull'autobus delle 7.37. Si arrabbiava moltissimo con lei, perchè spesso lei prendeva quello delle 7.57 visto che si dimenticava di tutto. Jessica si dimenticava di uscire di casa, si dimenticava i soldi, l'abbonamento, i biglietti, si dimenticava di essere in orario. Jessica viveva in un mondo estremamente sregolato, secondo D., e, nonostante i suoi sforzi, Jessica si dimenticava sempre anche di lui.
Ma non quel giorno.
Il 9 aprile dei 17 anni di D., D. uscì di casa e Jessica gli sorrise dal vetro.
Sentì tutto il suo corpo che diveniva caldo e sentì che il controllo su ogni suo arto veniva meno.
D. corse a più non posso verso l'autobus e salì con furore. Jessica, per la prima volta, lo salutò.
"Il nome oggi" disse tra sè e sè "una casa, quattro figli e una monovolume domani".
La sera stessa Jessica lo baciò. Doveva andarsene oltreoceano, classico dei classici degli amori giovanili, ma lui tenne questo ricordo come qualcosa di prezioso, e non come qualcosa di molto triste come soleva sempre fare.

D. sentiva il cuore, ora.
Sentiva che tornava a pulsare. Forte, potente, vivo.
Forse, se si fosse impegnato, avrebbe potuto muovere quel dito indice che Elefante tanto sperava di vedere. Come desiderava raccontargli questa storia!
Che felicità che avrebbe dato ad Elefante!
Magari avrebbero potuto cercare Jessica assieme, magari, dopo una decina di anni, si era già sposata con altri più validi uomini, ma poco importava! Voleva svegliarsi, per la prima volta voleva davvero svegliarsi!

D. mosse un dito.
Nessuno intorno lo vide.
Lo sapeva, mica possono tutti stargli con il fiato sul collo, non è mica il figlio del sindaco!
D. mosse una palpebra.
Il sangue scorreva.
Sentiva i piedi caldi, e il calore pian piano si diffondeva per ogni arto.
Ogni cellula rifioriva, lui poteva sentirlo.
Che meraviglia la vita.
Elefante aveva proprio ragione!

Elefante amava la vita, quella degli altri.
Non aveva mai mostrato sintomi depressivi, soltanto una estrema e costante voglia di spingersi ai limiti della sua esistenza. Elefante non aveva mai potuto avere figli, ma il suo desiderio materno la spingeva a prendersi cura di tutti e di tutto, per questo la chiamavano Elefante: si prendeva cura di quei cuccioli dispersi, grandi e piccoli che fossero. Era come se il mondo avesse capito che un gioiello di donna tanto raro doveva per forza donare la sua vita agli altri.
E proprio in questo modo la sua vita ebbe fine.
Quel giorno in cui D. si svegliò, Elefante stava pulendo i vetri del corridoio del reparto.
I vetri degli ospedali hanno molte protezioni per evitare i suicidi volontari, per cui per lavarli esternamente era necessario prendere una scala molto alta, in dotazione solo all'infermeria.
Quel giorno Elefante vide una farfalla, e nel tentativo di toccarla se ne volò via con essa.
Non si sa se lo fece per inseguirla o perchè stufa di portare il nome di un animale tanto pesante.
Mentre cadeva sentiva il sangue defluire dalla testa verso i piedi, e tutto, piano piano, diventava freddo e scuro.
Sentiva la sua gioia uscire verso qualcosa di indefinito, come se il suo spirito si fondesse con l'aria circostante. La pace di Elefante era tanta da accompagnarla dolcemente nell'abbraccio di madre terra.
Così finiva di battere il cuore di Elefante e riprendeva vita il cuore di D, come un metronomo che, ad occhi estranei, non aveva mai smesso di sancire il tempo.

Era il 9 aprile, 10 anni dopo l'incontro con Jessica.






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