6. Milza

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Suddenly, I'm not half the man I used to be
There's a shadow hanging over me
Oh, yesterday came suddenly.


D. uscì dal dottor Polser.
Dalla finestra di un appartamento lì vicino scivolava fuori una canzone dei Beatles, con lo stesso fatale tempismo che porta le persone al credere al fato.

Qualcosa dentro di sè non tornava, si sentiva come un borsellino pieno di centesimi dimenticati, scossi, pronti ad appesantire una tasca senza averne una utilità immediata.

D. si sentiva come quei centesimi che - forse - nel complesso possono anche valere qualcosa, ma sono presi e messi da parte da chiunque, nonostante il loro valore continui ad aumentare, seppur lentamente.

Nel tragitto verso casa pensò ancora una volta a Polser.
Quei capelli.
I capelli rossi erano per D. una prerogativa di Jessica. Quei capelli rossi, fluenti, lunghissimi.
Cadendo sulle spalle parevano dei vasi sanguigni che, irrorando la pelle di Jessica, davano un volto alla biologia della vita.

Più volte, durante la seduta, Polser gli chiese se stesse pensando a qualcosa.
Come poteva D. dirgli che i suoi capelli erano così... belli? Che ricordavano Jessica, che era... solite cose insomma. Storie lunghe, prolisse, che non interessavano a nessuno.

D. provava una strana pesantezza interiore, all'altezza della milza.
Se fosse vissuto in epoca romantica, l'avrebbero sicuramente chiamato lo Spleen.
I tannaim, sapienti ebrei del Talmud, credevano che la milza potesse essere implicata nel profondo senso di inadeguatezza alla vita in quanto spillatrice del riso inteso come espressione di gioia.
Forse il male alla milza di D. era proprio la sua assenza di gioia?

Si sedette in una panchina, pensò che - in fondo - era sempre stato troppo occupato a gestire ogni suo momento per chiedersi se fosse felice. Era soddisfatto della gestione del suo tempo, soddisfatto degli abbinamenti cromatici dei suoi vestiti, soddisfatto della sua routine quotidiana.
Ma non felice, non proprio.
Mancava qualcosa nella sua vita.

Una bambina si avvicinò alla panchina di D. 
Quella piccola creaturina guardava attentamente D. mentre fingeva di piroettare come una piccola ballerina dei ghiacci, inciampando su una stringa e finendo con la faccia a terra.

"Stai bene?"
Chiese D. in un moto di preoccupazione che non diede tempo al pensare se fosse il caso di parlarle.
"Io sì!"
disse ridacchiando la bambina, togliendosi del terriccio dal naso.
Io.
Io sì. 
E D. invece?
D. era confuso, perchè quello strano esserino dalla forma umanoide aveva detto "IO" prima di sì?

"....  e tu, signore?"
"io non lo so." rispose D. La risposta gli uscì come un fiotto di bile, una risposta amara che fortunatamente i bambini non sempre riescono a percepire. 
I bambini, quelle creature strane e semplici che non sempre comprendono quei meccanismi che prevedono malizia, sarcasmo e tutte quelle sfumature di cose tristi che riguardano gli adulti.
La bambina sgranò gli occhi.
"sei caduto anche tu?"
D. sorrise. Come poteva pretendere che quel batuffolo di carne umana potesse comprendere cosa volesse dire cadere dentro sè stessi. 

D. aveva aperto una voragine nel suo corpo.
Da quando si era svegliato da quella defaillance che lo portò all'ospedale, D. sentiva di non essere più lo stesso. Come quando si rovesciano i vestiti pregiati affinchè stirandoli non si rovinino, così si sentiva D. Sentiva di essersi ribaltato per proteggersi, ma così facendo aveva lasciato al vento le sue interiora. 
Sentiva di essersi ribaltato dal collo. 
Il volto, la testa tutta, si erano inseriti nella mandibola e giù, giù dalla trachea in giù. L'intero suo corpo passava dall'apparato digerente osservando il mondo interiore. 
Il viaggio di D. si fermò alla milza.
E' lì che sentiva il dolore, come quando si corre troppo.

Così, stando un po' fuori e un po' dentro, D. guardò la bambina.
"sì, sono caduto.. e anche se non si vede, mi fa molto male"
La bambina si illuminò.
"Ho capito! è come quando cadi sul sedere: la botta non si vede, ma poi fa davvero male la schiena"
Sì, era proprio così.
Decise di continuare la sua caduta, prima o poi sarebbe uscito da sè stesso, pensò: o si sarebbe capito o sarebbe certamente morto. 
Non era del tutto una caduta, faceva male, sì, ma vedeva tutto ciò che era dentro di lui.
Sentiva gli organi lavorare, il cuore pulsare, i liquidi muoversi e spostarsi. 
Che meraviglia, pensò.
Anche il suo corpo, in fondo, funzionava perfettamente nelle funzioni primarie. 
Era ancora nel mondo dei vivi perchè il suo corpo si occupava di lui.









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