7. Reni

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Qualcosa dentro di sè depurava ciò che stava intorno, senza mai pulire il filtro.
Per anni, pensò D., è come se si fosse sentito come un reticolo renale, pronto a depurare le brutture della sua esistenza.
Ma dove finiva ciò che D. eliminava?
Aveva mai espulso i suoi brutti pensieri?
Aveva una vescica per le porcherie del suo essere?
Le sue brutte parole, le sue brutte azioni, le sue oscene perplessità.
Oscene.
Proprio così.

Per anni D. aveva vissuto in un limbo tra la terra dei morti e la terra dei vivi, con la costante paura di mettere il naso fuori dalla finestra.
Che vigliacco questo D.
Sognava gloria tra gli oceani e ne otteneva un chilo di pane dal prestinaio in fondo alla via, per la modica cifra di dueeuroequarantanovecentesimi, perchè, invece, costava ben tre euro al mercato.
Vuoi metterci poi il costo della benzina per arrivare fino al mercato?
L'incredibile numero di incidenti che accadono su quella strada?

L'incredibile quantità di persone che si è costretti ad incontrare?

Che poi, a dirla tutta, per D. la gente non era cattiva. Semplicemente non voleva averci a che fare.
A D. piaceva osservare la gente, quegli ammassi di cellule che si muovono grazie ad impulsi elettrici: era divertente rendere astratta la vita, decontestualizzare ed inscatolare all'interno di contenitori più precisi. Magari folli, ma precisi.

La gente troppo spesso si avvicinava a D.
"Ommioddio, cellule!" esclamava dentro di sè "queste cellule si muovono in contemporanea e si avvicinano minacciosamente".
E se qualche cellula, come un elettrone in un atomo instabile, decidesse di tutto punto di buttarsi?
D. troverebbe un principio di colonizzazione su di sè.
Se queste cellule forestiere, poi, decidessero di riprodursi, fondare una colonia, dichiarare indipendenza?

Un brivido scosse D.

Che pensieri folli.
Folli.
FOLLI!

Sono folle, pensò D.

Chiaramente nessuno può vivere male come me, pensò.
Sembrano tutti così leggeri, gli altri. Felici, indaffarati, poi annoiati, tristi, densi di emozioni.
Sembrano tutti contenti, ricchi di amici altrettanto ricchi, bravi in tutto, mai in fallimento.

Lui, invece, era una meteora ormai spenta, lanciata a folle velocità nello spazio più cupo, senza il tempo di chiedersi come si sarebbe potuta riaccendere.

D. era un tecnico, uno di quelli che aggiustano i macchinari medici.
Vedeva spesso situazioni strane, ma D. compariva nel contesto come quei piccoli fiocchi di neve che si fermano sul tergicristalli mentre fuori si riversa la bufera. Uno di quei pesci che nessuno nota quando si va alla ricerca di un cetaceo raro.
D. si ricordò all'improvviso di un uomo, sulla cinquantina, che incrociò nel reparto di cure palliative.
Lui si trovava nel corridoio, mentre quest'uomo si avvicinò all'infermeria per delle cure di routine.
Aveva il volto spaventato, i capelli arruffati e gli occhi spalancati.
Non doveva stare molto male, pensò.
"Come procede, fotografo?"
"male"
"come male?"
"non ricordo più niente"
"fa ancora qualche foto?"
L'uomo fece cenno di no col capo.
D. lo ascoltava e lo guardava, Dio solo sa perchè trovasse tanto interessante la storia di uno sconosciuto che, paragonato agli altri, stava anche discretamente bene.
D. si sporse dal macchinario.
Lo guardò.
L'uomo lanciò un fugace sguardo verso D. ma non parve esserne infastidito, quanto piuttosto sembrò confuso. Confuso da tutto, confuso dalla vita, confuso dalla malattia.
D. cominciò ad interessarsi a lui. Ogni volta che andava in reparto ad effettuare l'ordinaria manutenzione, si sporgeva per vedere se l'uomo fosse lì, e vederlo ogni settimana lo confortava.
La sua sicurezza si basava sull'entrare in reparto, aprire la macchina e con fare insospettabile sbirciare se l'uomo, alle 10 in punto, si presentava nella stanza.
D. apprese molte cose: l'uomo era un fotografo, discretamente conosciuto in zona, che si ritrovò con un male più grande di lui, più grande di tutti.
Questo male gli aveva tolto la capacità di guidare, di svolgere il suo lavoro, di compiere azioni complesse e - apparentemente - anche di parlare con frasi più lunghe di qualche parola.
D. non sapeva cosa lo legasse a lui, ma quella paura che gli scorgeva negli occhi lo affliggeva ogni volta. Eppure ne aveva visti tanti altri, pensò. Non è una cosa così rara, o almeno non aveva mai provato tutto questo.

D. giocherellò con gli estremi della sciarpa che aveva addosso. Ad un certo punto, il lembo di stoffa si strinse e gli avvolse tutto il collo. Era piacevole sentire ogni fibra del cotone a contatto con la sua pelle, ogni centimetro coperto e riscaldato.
D. fece per togliere la sciarpa, ma la giustiziera di cotone non volle saperne.
D. improvvisamente si spaventò.
Cosa avrebbe dovuto fare? D. sentì il caldo salirgli su per la gola.
Più cercava di snodare la sciarpa, più il nodo pareva farsi stretto. Cominciò a tirare qualsiasi cosa e il panico si impossessò di lui. Sapeva che non sarebbe morto se non l'avesse tirata, ma l'idea di vivere per sempre con la sciarpa al collo gli pareva un rischio alla pari di una guerra in casa. Si guardò allo specchio durante la sua lotta al cotone, ma vide soltanto un uomo spaventato che allo specchio pareva un divertente pupazzetto dagli occhi sgranati.

Improvvisamente D. capì.
Capì il volto dell'uomo che per lungo tempo aveva seguito, capì chi era per lui, cosa provava e perchè questa cosa lo aveva privato di diverse ore di sonno.
Quell'uomo aveva paura. Paura di qualcosa che nessuno vedeva, ma che lo stringeva nell'illusione di non avere tempo. Tempo per sottrarsi alla sciarpa assassina.
La cosa che più colpì D. era la somiglianza di quell'uomo a suo padre.
Suo padre, un uomo che vedeva sì e no qualche giorno all'anno, sempre occupato in lavori di rappresentanza da una parte o dall'altra del globo. Un uomo che pareva estremamente duro nella sua fragilità, qualcosa sino ad ora ritenuta inscalfibile. Un uomo tanto assente da avergli garantito un'immagine ad hoc, costruita su misura nella fantasia di un figlio.
Ma era lì, era lì un suo sosia dagli stessi tratti rigidi, era lì con una contrazione costante dei muscoli orbitali, quasi che il volto pareva ormai irreversibilmente modificato.
Quell'uomo infallibile e con un posto nel mondo era lì seduto, affranto e affaticato, spaventato dall'idea di non riuscire a togliere la sua sciarpa in tempo.
Qualcosa lo tratteneva vicino a quell'uomo, D. sentiva come se nel profondo avesse bisogno di quella figura da accudire.
Un giorno suo padre sparì - voci di corridoio dicono che si fosse inabissato in qualche fiume siberiano - e D. pensò che, in fondo, potesse semplicemente non ricordare più chi fosse e dove vivesse, vivendo lontano e felice. Suo padre, in fondo, non sarebbe stato molto diverso da quell'uomo.
Alla fine è di questo che D. aveva paura: dell'umanità.
L'umanità intesa come un vissuto tendente alla morte, alla fine, alla dipartita.
Nulla avrebbe salvato quell'uomo, nulla avrebbe salvato D.

A meno che...

D. si alzò.
Si avvicinò all'uomo.
Come fa un uomo pronto al suicidio, si lanciò senza pensare, con la mente priva di pensieri che certamente l'avrebbero fermato. D. Si lasciò andare da un ponte mentale, ruppe le barriere, atterrò nelle acque gelide e tormentate del Pacifico.
Le sue braccia avvolsero le spalle dell'uomo in un goffo abbraccio.
D. lo strinse. Non pensò, semplicemente agì.

L'uomo non sembrò più confuso del solito.
Osservò D. ma non disse nulla, si lasciò abbracciare. Forse, anche a lui mancava un figlio.
D. lo strinse per qualche istante, come si stringe un amico lontano o un parente che non si incontra da molto tempo. L'uomo non disse nulla neppure dopo, ma a D. non interessò. Era abituato alla vita in solitudine - solitudine di pensiero, di emozione, di sentimento.

Quando tornò, la settimana dopo, l'uomo non c'era più.
Era come se sentisse, dentro di sè, che in fondo stava meglio, in un modo o nell'altro.
Forse anche grazie a D.
D. non sapeva che ruolo avesse nel mondo, ma pensò che in fondo il suo ruolo non era molto diverso da quello di un rene. Dall'uomo D. assorbì la confusione e il terrore, ma sentì che qualcosa era passato al di là: la tenerezza, il sangue puro.











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