5. Encefalo

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La solita mattina, pensò il dottor Polser.

Nel mezzo delle sue scartoffie cercava per l'ennesima volta l'elenco degli appuntamenti della settimana. Era il quinto che faceva stampare, la signora Tea non ne poteva più.

La signorina Tea era una signora ormai sulla sessantina, piuttosto appariscente e discretamente alta. 
Tea, come il nome di una rosa, era stata chiaramente  una donna graziosa in gioventù, donna della quale sicuramente molti uomini avranno proiettato desideri di famiglia - e non solo. 
Nello studio di Polser, grazie a lei, risuonava sempre una melodia non propriamente idonea allo studio di uno psicoterapeuta. Il Wozzeck di Alban Berg non si può propriamente annoverare tra le soavi note che accompagnano una sala d'attesa, e tutto ciò rendeva quello studio di provincia il degno set cinematografico di un film horror degli anni '20.
La signorina Tea era appassionata di lirica e opera, e ciò aiutava ad immaginarla, ad ogni suo ingresso, come una possente valchiria accompagnata dalle note di Wagner. 

Quel giorno D. si svegliò con un sussulto. 
Era passato più di un mese dal suo inspiegabile torpore.
Guardò l'impegnativa. 
"Stupor Catatonico".
Che diavolo è questo stupor - pensò - devo averla fatta grossa questa volta.
L'appuntamento era fissato per il pomeriggio, alle 13.30, presso un edificio di una via perpendicolare a Via Monte Bianco.

D., tra le tante cose strane che si ritrovava a fare durate il giorno, si sentiva di possedere una strana capacità: la capacità di far andare male le cose. 
Ma non quelle che riguardavano lui, oh no. 

D. ricordava ancora il giorno in cui morì sua madre. 
Il giradischi mandava una musica classica, di quei vinili che non si sa più cosa siano talmente la carta in cui sono confezionati si è usurata. In tutta la casa regnava un torpore intimo, dalle finestre entrava una luce fioca, di quelle invernali. Fuori, la neve cadeva e il mondo era avvolto dal suono impercettibile dei fiocchi che si adagiano l'uno sull'altro.
D. aveva solo 8 anni.
Corse nella stanza dei suoi genitori. 
Non vedeva l'ora di chiedere loro di poter uscire con quel suo amico che ha lo slittino, con cui si lanciava sempre giù dalle scalinate del paese che con l'inverno diventavano uno scivolo di cristallo.

Mamma.
Mamma posso andare fuori?

Avanti D., hai solo 8 anni! No che non puoi! La mamma di F. vi accompagna?

Chi? La mamma di F.? Ma sai chi è? Hai paura di farmi andare da solo e mi mandi con quella li?

In realtà D. non sapeva cosa volesse dire essere un alcolizzato. E nemmeno sapeva perchè la mamma di F. fosse una persona poco raccomandabile. Sapeva solo che F. era sempre tanto infelice in sua presenza, e - con lo stupore di un bambino - riusciva a sentire la preoccupazione che provava suo padre quando veniva a sapere che in giro c'era anche lei.

Quante storie D. Cosa vuoi che ti succeda? E' una signora strana, ma meglio con lei che solo, sai quante cose brutte possono accadere ai bambini? Tu non ci pensi e poi puf! qualcuno ti rapisce e ti usa come soprammobile. La vorresti una vita da soprammobile nella casa di qualche omone brutto e cattivo?

D. rise. 
Gli piaceva pensare a come sua madre parlasse di cose tanto vere quanto assurde, a come lo avvertisse dei mali del mondo condendoli sempre con una spruzzata di panna e cacao.

D. uscì. 
La mamma di F. non c'era e D. lo sapeva bene.
Si sentiva in colpa perchè aveva mentito a sua madre, e sua nonna soleva dirgli sempre che quando qualcuno mente accadono cose brutte nel mondo. Non ci aveva mai creduto.
"Se accadono in Cina - pensò - io mica posso vederle."
Quando tornò a casa vide la strada chiusa e un'ambulanza esattamente fuori dal suo palazzo.
Scorse mentalmente chi poteva stare male.
Forse il signore dell'ultimo piano, dicevano che avesse dei problemi nella pancia.
O l'altra, la signora pazza che spesso urlava al marito che l'avrebbe fatto fuori.
D. si sentiva relativamente tranquillo. Curioso forse, ma tranquillo.

Da quel momento non si ricordò più nulla, solo che vide un'ombra, forse, e il dolore alla pancia fu tanto forte da fargli rigurgitare anche ciò che non aveva mangiato. I giorni a seguire furono terribili. La testa continuava a girare e D. continuava a dirsi che tutto ciò non poteva essere accaduto soltanto perchè aveva mentito, ma una voce intima dentro di sè lo sapeva, aveva capito che d'ora in poi ogni bugia avrebbe causato un disastro. Era colpa di D. e della sua capacità di far andare male le cose.

Tea quel giorno decise di far risuonare una bellissima composizione di Beethoven.

D. si avvicinò all'entrata di un edificio, l'indirizzo era sul foglietto che gli avevano preparato i medici dopo averlo dimesso un mese prima.
Tirò un gran respiro. Sapeva che quel giorno sarebbe successo qualcosa di terribile, perchè questa volta aveva mentito a sè stesso. Tutte le volte che mentiva succedeva qualcosa di brutto. Era una certezza, una legge fisica tanto accurata che D. si stupiva ogni volta che non fosse stata già pubblicata da qualcuno.
"La legge di......" come si chiamava D? Qual era il suo cognome?
Non si ricordava più.
Scostò lo sguardo, c'erano cose più interessanti lì intorno rispetto ad un inutile cognome.

Tutta la facciata dell'edificio era ricoperta da edera, come se la natura si vergognasse di un edificio tanto in rovina e avesse stipulato un patto con gli inquilini al fine di ridipingerla personalmente con svariate tonalità di verde e pennellate a forma di foglia tridimensionale.

D. si fece forza.
Cosa poteva accadere in più?
sua madre - pace all'anima sua - già se ne era andata, suo padre in quel momento era talmente lontano da non rischiare decisamente nulla. Le cose brutte, tuttavia, non accadevano ai suoi amici, ma solo alle cose e alle persone che avevano a che fare direttamente con lui. Pensò al suo gatto.
Dannazione.

Spinse la porta.

Tea si girò.
Qualcuno stava entrando nello studio, chissà se aveva intenzione di pulirsi i piedi.
Quante volte è capitato di ritrovarsi delle vere e proprie mappe del tesoro sul pavimento, disegnate con il fango di svariati piedi. Piedi, piedoni, piedini, piedacci.

D. entrò.
Per un istante D. spense l'encefalo.
Quella musica.
Tea tramutò il sorriso che rivolgeva ad ogni cliente forestiero in uno sguardo indagatorio.
D. guardava il vuoto, quella musica era la musica che risuonava prima di uscire da casa sua, il giorno che la madre volò via.

Il dottor Polser uscì dalla porta.
"Tea! Tea! ma l'appuntamento delle 13.30 è arrivato? Ha chiamato per caso? Son già passati cinque minuti e...."
Si fermò.
La situazione sembrava essersi congelata nel tempo.
Polser osservò la sua segretaria congelata in un risolino inquietato, ancora in dubbio se accogliere lo strano individuo che aveva appena varcato la soglia o se chiedergli cortesemente di presentarsi.
D., d'altra parte, era fermo altalenando lo sguardo tra Tea e il muro, pietrificato da quella musica che mandava un'eccessiva dose di emozioni.

D. era come in corto circuito.
Si sarebbe potuto giurare di aver visto del fumo uscirgli dalle orecchie.

Polser, non senza una vena di divertimento, passò una mano nel campo visivo di D.
D. si girò di scatto, come se qualcuno avesse rialzato il contatore dopo un blackout.
Polser ridacchiò.
"Le piace il mio studio?"
D. sorrise.
Capì di aver fatto una gaffe ma questa volta non si bloccò.
Non stava andando tutto male. 
Qualcosa in Polser lo tranquillizzava.
Forse era l'assenza degli occhi di Polser a farlo sentire meno in imbarazzo, o forse era qualcosa di diverso. 
La musica lo confondeva, D. si sentiva in una lavatrice di odori, suoni, emozioni.

D'un tratto capì.
Polser aveva i capelli dello stesso colore di Jessica, della sua Jessica.

Tutto sembrò rientrare nei cassetti della sua mente, tutto si riordinò.
D. rientrò in sè stesso.
Sorrise.

"Buongiorno dottor Polser, è a lei che mi devo rivolgere?"




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