7th

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Corinne

Era passata più di mezz'ora dalla mia fuga da casa di Luke e ancora non mi ero mossa di lì; ero ancora sotto il suo palazzo, seduta su di una panchina di fronte ad esso. Il motivo principale era il fatto che non avevo la benché minima idea di dove fossi. Ero sicuramente ancora a Manhattan, forse nell'Upper East Side (ovviamente Luke non poteva non abitare lì), ma mi sentivo come se fossi appena arrivata in una città che non conoscevo. Forse ero ancora stordita dagli eventi e mi sentivo disorientata per questo.

Sentivo ancora l'imbarazzo dato dalla mia fuga pesare come un macigno nel mio stomaco. Non riuscivo a pensare ad altro che non fosse la figlia di Luke che mi guardava confusa e imbarazzata - probabilmente non era nuova a quel genere di cose - e all'espressione delusa che aveva Luke mentre scappavo via. Non potevo farci niente, la consapevolezza di aver fatto una figuraccia e di dover affrontare la figlia di Luke, magari passarci una serata intera insieme, mi aveva spaventata. Non era vero che non avevo paura, io ero terrorizzata da tutta quella situazione, era ora di smetterla di mentire a me stessa. Sarei dovuta andarmene come avevo pianificato, invece di illudere Luke dicendo cose a cui non credevo io stessa in primis.

Cominciava a fare freddo, così mi strinsi nelle spalle in cerca di calore. Forse era arrivata ora di chiamare qualcuno per farmi venire a prendere... e di ammettere la mia sconfitta. Chiunque avessi chiamato avrebbe fatto due più due, giungendo alla conclusione che sì, ero cascata con tutte le scarpe nella trappola del mio capo. Mi sentivo così ipocrita, a ripensarci... ma allo stesso tempo, sentivo che non dovessi farne un così grande dramma. Capita a tutti di sbagliarsi e di contraddirsi, no?

«Oh, che si fottano!», sbottai ad alta voce, afferrando il mio cellulare dalla borsa.

«Stai bene?».

Sobbalzai, quasi cadendo dalla panchina, a sentire quella voce così vicina a me; voltandomi mi ritrovai davanti un ragazzo parecchio strano. I capelli leggermente ondulati gli arrivavano alle spalle, era piuttosto alto e vestito con una camicia dalla fantasia strana e un paio di skinny jeans blu scuro. I suoi occhi erano ben distanziati, di un colore tra il verde e il grigio e le sue labbra sottili erano di un rosa troppo poco naturale.

«Hey? Sto parlando con te. Stai bene?», mi chiese di nuovo il ragazzo, sedendosi accanto a me sulla panchina.

Sospirai, distogliendo lo sguardo. «Eh, non proprio», confessai, celando a malapena il mio disagio. Non mi piace parlare con gli estranei.

Il ragazzo rise. «Beh, in effetti chi parla da solo non sta mai del tutto bene».

Corrucciai le labbra. «Parli così agli estranei?», lo attaccai.

Lui alzò le spalle. «Mi piace essere onesto, che vuoi farci», borbottò, «Allora, cosa ti succede? Perché ti sto osservando da quando sei uscita da quel palazzo e non hai per niente una bella cera».

Arrossii. «Mi stai osservando da quando sono uscita dal palazzo? Sei uno stalker, per caso?», chiesi spaventata.

Il ragazzo scoppiò a ridere. «No, tranquilla; lavoro qui di fronte e ti ho vista uscire per caso. Mi sembravi distrutta e così... Ho pensato di venire a controllare come stessi. Tutto qui», spiegò, alzando le spalle.

Annuii, volgendo lo sguardo alla strada e notando una piccola galleria d'arte. Mi voltai verso il ragazzo, guardandolo sbalordita. «Lavori lì?».

Lui si limitò ad annuire. «Quando non studio, sì», rispose, sorridendomi, «Ti piace l'arte?».

Ricambiai il sorriso. «Tantissimo», risposi, «Potrei passare ore a parlarne, ma credo che ti annoierei».

Il ragazzo scosse la testa. «Nah, credo che sarei più io ad annoiarti. I miei amici mi dicono che sono un libro di storia dell'arte che cammina», borbottò, facendomi ridere.

Boss || Luke HemmingsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora