Nathan.

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Decimo

<Dodici anni fa>

Il tour della casa fu a dir poco suggestivo: se al primo piano salotto e cucina rappresentavano la bravura di un architetto qualsiasi, più salivamo le scale a chiocciola, più il mondo racchiuso in quelle mura immobili s'amplificava. La storia dei Whyett non era comune alle altre, neppure il miglior architetto al mondo avrebbe potuto disegnare il senso di un racconto così introspettivo e si sarebbe limitato a disporre gli oggetti in maniera intrigante. I vestiti di Zeke parlano del suo modo di fare, ma solo gli occhi raccontano la personalità – e cos'è, se non un mix di abitudini, ossessioni ed esperienze passate? Questo è il motivo che mi ha spinto ad adorare l'atmosfera enigmatica che fuoriesce dagli spifferi delle finestre. Se c'è un fattore di cui terrò conto, rientrato nei confini della mia cameretta, è che non bisogna vergognarsi di esprimersi.

La mansarda si prospetta come una stanza dalle dimensioni ridotte, le più ridotte dell'intera struttura, però le pennellate di giallo, rosso e viola che abbelliscono tre pareti su quattro – le avevano dipinte assieme al padre –, la rendono la più emozionante. Sebbene i libri sparpagliati sul pavimento descrivessero il mio amico un ottimo lettore e le riviste punk il personaggio di Jonas una doppia maschera, la mia attenzione viene catturata da semplici assi di legno e cornici vuote attaccate alle pareti. Non so cosa mi aspettassi di scoprire – forse qualche scatolone contenente i vecchi abiti del genitore? Le famose pistole d'acqua dello zio? Le fotografie di Corinne incinta mentre sorride al marito? –, ma qui non c'è traccia di strati di polvere ostile. La vernice asciutta è un buon esempio di vivacità repressa. Cerco di mascherare l'apprensione mentre osservo Zachary dondolarsi sui talloni. È preoccupato anche lui, ma non per le mie stesse ragioni: se io ho paura di eseguire un passo falso, lui è consapevole che mi deluderà, qualunque domanda verrà posta. D'altronde me l'ha già fatto intendere, di Alexander non rammenta granché, nonostante i colori sgargianti dell'ambiente. Da una parte sono sollevato di cogliere solamente il dolore dell'amnesia nel suo sguardo.

― Siamo arrivati in cima alla vetta ― mormora, scompigliandosi i capelli biondo sole.

Strizzo le palpebre e mi lascio sfuggire un ghigno. ― Be', devo ammettere che non è niente male. È curioso.

― Dici? ― e la fossetta non sbuca come mi aspettavo, si lascia intimidire.

― Sì, a me piacciono le cose curiose.

― Io sono una cosa curiosa, quindi?

Scoppio a ridere, sperando di non arrossire. Vorrei dargliela vinta, perché è vero, perché lui è molto più interessante della pittura rappresa, ma mi sta chiedendo troppo. Neppure il Nathan "espressivo" è tanto sfrontato. ― Intendevo l'abitazione.

― Mamma e papà l'hanno fatta costruire perché parlasse di noi. Quindi se la casa è curiosa, è merito mio. ― Non posso dargli ragione, anche se mi piacerebbe. Zeke non si accontenta che sia andato a guardarlo giocare, il football non è stata una prova sufficiente d'amicizia. Esige di più, e non sono in grado di aprirmi in fretta. Isabella sta ancora aspettando le mie scuse.

― Sai, credo che avremo molto da imparare. ― Lo osservo in cerca d'intesa, tuttavia è preso ad ammirare l'orizzonte, baciato dalla luce che lo immerge in un un'aureola eterea. Potrebbe spiccare il volo e non riuscirei ad acciuffargli la caviglia in tempo. Vederlo volteggiare farebbe male, ma chissà se stupirebbe pure gli angeli con la sua armonia. ― Dalle persone, intendo. Ci s'insegna reciprocamente lezioni di vita.

Mi fissa, e per un attimo smetto di blaterare a vanvera. È terribilmente reale e ancorato a terra, non ci sono creature a portarlo via, né un Jonas sotto forma di diavolo lo metterà in guardia della mia meschinità. Isabella sta ancora provando ad accettarla. ― Tu mi hai insegnato che la gente silenziosa non ha motivi particolari per esserlo.

Aggrotto le sopracciglia, perché la sua frase mi colpisce profondamente. ― Cosa?

― Pensavo che i ragazzi stessero zitti a causa della tristezza. Insomma, notare che una parte dei miei coetanei non sono come me, mi spiazza. Non riesco a concepire quella che in genere viene definita "diversità" ― mima il termine con delle virgolette in aria, stranito dall'averlo adoperato. ― Perché ridi meno degli altri? Perché ti assenti spesso? Perché ogni tanto smetti di chiacchierare e preferisci lasciare la parola a qualcun altro? ― m'interpella senza accusare. Sta facendo una constatazione che ha la forza di scombussolarmi perfino l'intestino, smuovendo gli organi più stabili e spedendo il cuore sino a metà gola. Faccio fatica addirittura a deglutire, da quanto lo sento battere vicino ai denti. ― Io amo essere al centro dell'attenzione e straparlare di tutto quello che mi passa nell'anticamera del cervello. Tu, al contrario, dosi ciò che hai intenzione di dire e il 95% di quello che esce dalla tua boccuccia di rose è sempre calcolato. Io canto, e sono capace di straparlare anche nel sonno. Non governo le mie reazioni, l'esagerazione è parte della mia natura intraprendente. Tu non sei così, sei... diverso. Da me. ― Le sue pupille cominciano a riempirsi di commozione. La sincerità che trapela dalla voce calda e il clima carico di elettricità che fa vibrare il pavimento ci accendono di emozioni. Positive o negative che siano, rimangono sentimenti puri, che attestano l'esistenza dell'anima. ― Questo mi fa impazzire, Nate. Come fai ad accontentarti di quel 5%? E quel vuoto così scuro e soffocante in cui ti rifugi? Che mi dici di quell'affetto a cui puoi fare a meno, alle opinioni che t'interessano relativamente? E di come tu legga libri perché hai bisogno di scappare altrove mentre io l'ho fatto per piacere a te ed essere giudicato un undicenne meno banale? Meno prepotente. Sì, la mia spavalderia è prepotenza ed è inutile continuare a mentirti. Penso sul serio di poter fronteggiare i bulletti ghignosi più grandi. ― A bocca aperta, drizzo le orecchie e mi allontano di un passo. Mi ha spiazzato. Zeke non si muove, studia le pareti dipinte, rilassa le spalle e s'ingobbisce come se un macigno si fosse appena dissolto dalla sua schiena. Le mani a penzoloni sfiorano il tessuto dei pantaloni, e solo ora mi accorgo che ha delle dita lunghe e nodose da cui mi farei volentieri accarezzare, se non fossi confuso. ― Ho capito che a volte si è così e basta. Si può amare la calma, la solitudine, si può preferire il silenzio al caos. O, più semplicemente, si considera il rumore un nemico da scacciare. È normale.

― Allora come faremo ad andare d'accordo? ― mi sorge spontaneo domandare, preda della morsa feroce del panico. Un panico insidioso da cui non ho ricevuto avvertimenti e con cui rimango a braccetto per diversi interminabili istanti. Paragono i fratelli Whyett all'odore del pane sfornato alla mattina, i Traynor a quello di carta vecchia. Paragono la mia lentezza alla rapidità di Zeke, e la mia lingua lunga alle insidiose punzecchiature di Jonas. Non sono nato per il circo, né per le buffonate. Non sono fatto per gli esperimenti, o i film del terrore, o la chitarra elettrica. È già tanto che sia eccellente in qualcosa non inerente al calcolo algebrico come la danza.

― Ti ho mai fatto notare che uno dei miei argomenti preferiti è Star Wars? Mi sembra di averti parlato di Sir Simon, non di Yoda.

― Ma a te non piace il fantasma di Canterville, lo hai detto un secondo fa.

― Concordo, Yoda è più interessante. Però... vedi, c'è da specificare che prima d'incontrarti, reputavo la gente silenziosa davvero noiosa e deprimente. ― Sorride, e i denti abbagliano. Zeke è una stella caduta dal cielo. ― Abbiamo un futuro intero per ricrederci e abbattere degli stupidi pregiudizi.

― Proprio stupidi. ― La pancia brontola, e Zachary ha ancora da imparare che non esiste solo il Nathan taciturno, ma altre personalità che nemmeno conosco. Forse è meglio che non ne risvegli nessuna.

[Angolo playlist: Writing's On The Wall, Sam Smith.]

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