Ricorda il mercato

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Non avevo più paura.

Non saprei dire perché, pensandoci. Avrei dovuto, in realtà. Avrei dovuto essere spaventato, soprattutto dopo le parole di Hart Miller. Eppure non mi sentivo così. Nel corpo, nel sangue, potevo riconoscere qualcosa che, tradotto, era adrenalina.

Scesi le scale di corsa, cercando di seguire il rumore di passi che avevo sentito.

Arrivai fino al portone sul pianerottolo, mi guardai intorno, mi affacciai all'esterno e non vidi nessuno.

Dal palazzo in cui abitavo si incrociavano troppe strade perché potessi sceglierne una da imboccare in modo logico.

Così non feci nulla. Rimasi immobile, lasciando che il freddo mi paralizzasse.

Mi guardai intorno. Davanti a me, sulla destra e sulla sinistra, le bancarelle del mercato che avevo notato tornando a casa si diramavano in entrambe le direzioni, e trovare chi stavo cercando in mezzo a tutte quelle persone sarebbe stato impossibile. 

Quando qualche minuto più tardi rientrai nel mio appartamento, ancora scosso e turbato, e mi resi conto con sorpresa che l'appetito non era svanito, anzi. Telefonai al detective Miller e gli spiegai ciò che era appena accaduto , poi mi infilai il cappotto e raggiunsi di nuovo la strada. 

Affondai le mani nelle tasche e incominciai a camminare, dirigendomi verso quelle bancarelle piene di voci, odori, persone.

Pochi passi, e mi ritrovai in mezzo alla folla. Chiusi gli occhi per un istante e quando li riaprii scivolai in un ricordo.

La memoria di un tempo lontano, dove dentro e fuori tutto era sole.

<<Guarda, Ethan! Guarda quel vestito!>>


Le camminavo accanto, le stringevo la mano. I suoi capelli neri, scivolandole sulle spalle, sfioravano le mie orecchie. Perché le nostre teste erano così vicine. Si toccavano nel freddo di quel dicembre soleggiato, senza nuvole ma immerso nella neve. Marianne era bellissima ed io amavo tutto di lei. Il modo in cui rideva, il modo in cui parlava. Il ritmo del suo respiro, le sue mani, la fossetta che faceva capolino sulla sua guancia destra -soltanto su quella- ogni volta che sorrideva.

<<Provalo>> le dicevo, indicando il vestito con un cenno del capo.

Era bianco, con dei piccoli fiori rossi e verdi sparsi un po' ovunque. Arrivava poco sopra le ginocchia.

<<No, non lo provo. Lo compro. Anzi, tu me lo compri>> mi diceva lei, scoppiando a ridere.

Diventavo serio, ma non resistevo. Finivo con il ridere anche io e poi la assecondavo. Perché con lei era così. Nulla aveva più importanza quando eravamo insieme. Bastavamo a noi stessi, ed era questo a fare la differenza. Potevamo trovarci in un posto qualsiasi del mondo, e fare le cose più stupide. Andava bene. Era perfetto così, perché eravamo noi. Noi due.

Fu il pianto di un bambino a distogliermi da quei pensieri. Mi guardai intorno e mi resi conto di essermi fermato di fronte a una bancarella che vendeva abbigliamento.
Esitai, socchiusi le labbra, risentii ancora la sua voce.

<<Compriamo delle caramelle, Ethan.>>

Ne avevamo comprate tantissime, e le avevamo mangiate insieme, continuando a camminare tra le bancarelle.

Poi i baci, le carezze, il profumo del suo collo.

Era quello l'amore che prima e dopo di lei non avevo più ritrovato. Era lì. Poter essere insieme a fare qualunque cosa, realizzando che tutto sarebbe stato perfetto.

Era il cuore che imparava a battere per qualcun altro, trasformando un giorno qualunque in un giorno importante.

Come avevo potuto lasciare che cadessimo in pezzi così? Perché non l'avevo fermata?

Presi tra le mani una sciarpa dal banco davanti a me, la guardai, la rimisi a posto.

Improvvisamente mi sentii solo.

Presi il cellulare, tornai sulla rubrica, mi fermai quando arrivai al suo nome.

Feci qualche altro passo, e in un attimo mi ritrovai di fronte ad una bancarella che vendeva hot dog, panini e patatine fritte. Ma non avevo più fame.
Guardai ancora il suo nome sul telefono. Lo accarezzai con il dito, come se lei potesse sentirmi.

Stavo per chiamarla quando il pianto improvviso e forte di un bambino alle mie spalle mi fece voltare.

Mi girai e vidi che era caduto a terra. Lo aiutai a rialzarsi. La mamma, dietro di lui, mi ringraziò e gli disse qualcosa che non capii.

Perché mentre la mano del bambino era ancora nella mia e io lo stavo aiutando a rimettersi in piedi, la vidi.

Riconobbi i suoi capelli neri, i suoi occhi scuri, il suo viso.

Fu un secondo, e poi i nostri sguardi si incrociarono.

Restammo immobili, divisi da tutta quella folla, a guardarci senza dire nulla.

Come se il resto del mondo e il tempo si fossero fermati per sempre.

La ballerinaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora