Mentre il resto del mondo continua a correre

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Il volo per tornare negli Stati Uniti era stato lungo e stancante.
Adesso, seduti all'interno di un taxi che dal LAX, l'aeroporto più grande di Los Angeles, ci avrebbe condotti all'albergo in cui avevamo prenotato una stanza, nessuno di noi diceva nulla. Ryan aveva gli occhi chiusi, la testa appoggiata contro il vetro del finestrino; mentre Marianne era appoggiata a me, anche lei con gli occhi chiusi.

Io, l'unico sveglio, osservavo la strada che ci correva accanto. Era sera, e avevamo tutti bisogno di un po' di riposo. Il viaggio in Italia era stato utile ma aveva assorbito buona parte delle nostre energie.

Nella mia mente, stavo cercando di riordinare i pezzi del puzzle.

I ciondoli ci avevano condotti a Valenza, dall'orefice che tanti amnni prima li aveva fabbricati. Lui ci aveva permesso di scoprire la nuova pista: Evelin, la ballerina.

Ripensai a tutto ciò che dopo l'incontro con Carlo Salviati eravamo riusciti a scoprire su di lei. Il suo cognome, per iniziare: Perth. Ma internet ci fornì molto più di questo. Le vicende di Evelin ebbero un impatto mediatico notevole nel corso del tempo, soprattutto perché la sua stella era cresciuta tanto durante gli anni. Era diventata davvero una diva della danza. Leggendo però gli articoli riportati da vari quotidiani mi resi ben presto conto che quel mondo aveva tante facce. E non perdonava. La concorrenza era spietata. Le ragazze che ce la facevano, che venivano fuori, erano poche; quelle che rimanevano nella memoria della gente un numero irrisorio. Evelin, con il suo mix perfetto di bellezza d'altri tempi e talento, era arrivata quasi a quel livello. Era una stella, è vero. Ma era durata poco. Non abbastanza per poter restare impressa nella storia, in ogni caso. Nel momento dell'apice della sua carriera i media si erano interessati a lei, e quel momento era così durato un po', ma in seguito il mondo della danza l'aveva dimenticata, rimpiazzandola in fretta. I riflettori erano rimasti allora ben accesi sul caso strano della sua scomparsa improvvisa: una sorta di mistero televisivo paragonabile a un moderno "Chi l'ha visto." Poi, gradualmente, anche quell'interesse in un certo senso morboso era andato scemando. I giornali avevano smesso di scrivere di lei, così come i tabloid da quattro soldi, la spazzatura editoriale che ben conoscevo e che viveva di pettegolezzi e storie raccapriccianti, spesso manipolate e colmate di riempitivi inventati di sana pianta dal "giornalista" di turno. Evelin Perth aveva raggiunto il suo scopo: era svanita nel nulla e il mondo si era dimenticato di lei.


Carlo Salviati, tuttavia, però ci aveva fornito una pista da seguire: Evelin, insieme ai due figli, i gemelli Ray e Christopher, con tutta probabilità si era trasferita a casa di sua sorella, in California, sul Mulholland Drive.
Era il 1986. Erano trascorsi trent'anni. Adesso, avrebbe dovuto avere quasi sessant'anni, ammesso che fosse ancora viva. E la sorella, di cui in realtà non conoscevamo neanche il nome, forse un'età simile.

Osservavo il panorama che in silenzio correva di fronte ai miei occhi, e intanto non riuscivo a smettere di pensare ad Evelin Perth.
Aveva portato i figli con sé durante l'ultimo viaggio in Italia, e lì aveva chiesto che venissero fabbricati quei due ciondoli.

Due ciondoli per due gemelli.

Aveva senso.

Ripensai agli occhi sgranati di Ray quando gli avevamo mostrato quello che avevo trovato di fronte alla scuola di danza. Rividi il suo sguardo allucinato, sconcertato, sconvolto.
Pensai a suo fratello Christopher. Avevamo detto a Miller di cercare informazioni anche su di lui, e ci aveva risposto che ci avrebbe aggiornati se ci fossero stati sviluppi. A tutti gli effetti, Christopher poteva essere, al momento, il nostro sospettato numero uno.
Il taxi continuava a correre, mentre io continuavo a sperare che in California avremmo trovato la sorella di Evelin e quindi, in qualche modo, anche Christopher. Sapevo che in realtà le probabilità di successo sarebbero state poche, perché erano trascorsi tanti anni da quando la ballerina aveva lasciato la costa orientale degli Stati Uniti per trasferirsi tra le colline di Los Angeles, dalla parte opposta dell'America, ma in fondo in che cos'altro avremmo potuto sperare?

Mi chiesi a lungo chi potesse essere il fantasma. La persona che, a detta di Carlo, le aveva improvvisamente distrutto la vita, facendola precipitare giù, in un baratro oscuro, senza luce.

Da chi stavi scappando, Evelin? Volevi proteggere i tuoi figli, non è vero? E che cosa hai trovato, ad attenderti? Che cosa c'era laggiù, al fondo di quel burrone?

Guardai Marianne che dormiva addosso a me. Poi osservai Ryan, che continuava a tenere la testa contro il finestrino del taxi.

Era strano. Provai una sensazione che prima di quel momento, forse, non avevo ancora conosciuto. Era come se, in qualche modo, facessi davvero parte di una squadra, adesso. Era bello lavorare insieme a loro. E mi piaceva Ryan. Mi piaceva tantissimo. Provavo un dolore immenso per tutto il male che lo aveva devastato, tanti anni prima. E avrei voluto dirglielo, parlargliene, cercare di fargli capire quanto lo stimassi. Ma poi, quando ero sul punto di farlo, qualcosa mi bloccava sempre. Avevo come il timore di poter sembrare ridicolo, o stupido, ai suoi occhi. Era un uomo di poche parole, ma sapevo che dentro aveva un mare in tempesta a scuoterlo, una burrasca che non gli concedeva tregua. Sapevo che anche se non ne parlava mai, lui combatteva una guerra contro se stesso e contro i propri ricordi ogni singolo giorno. E forse era per questo che lo ammiravo tanto.

Guardai il tassista dallo specchietto e l'uomo accennò un sorriso dopo aver notato che ero l'unico ad essere rimasto sveglio.
Sorrisi anch'io.

Vidi l'insegna bianca ed enorme di Hollywood comparire in lontananza di fronte a noi, e mi resi conto che eravamo quasi arrivati a destinazione.

Chiusi per un istante gli occhi, e per qualche ragione tornai con il pensiero a ciò che era successo la notte precedente a Porto Cesareo, prima che io e Marianne rientrassimo in albergo. Ryan era già salito in camera, mentre io e lei avevamo deciso di restare ancora un po' fuori.

Eravamo soli, e camminavamo sul lungomare. L'aria era fresca ma piacevole; la notte limpida, senza nuvole.

<<È bellissimo, non è vero?>>
<<Lo è, Marianne>> le avevo risposto guardando il mare di fronte ai nostri occhi.

Nessuno dei due aveva più parlato. Eravamo rimasti in silenzio a respirare quell'aria così profumata. Così buona.

Con la mano avevo cercato la sua. L'avevo trovata, e avevo lasciato che le nostre dita si intrecciassero, come un tempo sapevano fare così bene. Lei non aveva detto o fatto nulla: mi aveva soltanto guardato. Eravamo così vicini che potevo sentire il suo respiro.

Avevamo continuato a passeggiare per alcuni metri, fino a raggiungere una gelateria che stava per chiudere.


<<Vorrei un gelato>> aveva detto Marianne.

<<Lo sapevo>> le avevo risposto, sorridendo. Lei aveva annuito, ricambiando il sorriso. Avevo pensato che fosse più bella che mai.

Avevamo comprato il gelato, e poi ci eravamo seduti a mangiarlo su una panchina di fronte al mare.

<<Era questo che mi mancava, Marianne. Sentirti vicina, mentre il resto del mondo continua a correre.>>

Lei mi aveva fissato a lungo negli occhi, con quell'espressione che poteva significare tutto e il contrario di tutto al tempo stesso. Non aveva risposto nulla, ma aveva preso la mia mano e l'aveva portata contro il suo petto, da qualche parte vicino al cuore. Ero rimasto in silenzio, immobile, ad ascoltarne i battiti.

<<A me mancava questo, Ethan.>>

Ci eravamo avvicinati ancora, e poi ancora, e alla fine ci eravamo baciati.

Ed era stato incredibile.

Tanto perfetto da far quasi male.

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