Il tè delle cinque #1 [Il grande silenzio]

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A tutto lo schifo che recensisco, ho deciso di alternare pillole personali: piccole recensioni di libri, film o dischi che mi piacerebbe condividere con voi, madame e messeri.


In questo caso, ho scelto di parlarvi de Il grande silenzio. Non esito a definirlo il mio film preferito in assoluto.


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Uno spaghetti-western risalente al ben lontano 1968, creazione del grande regista Sergio Corbucci, avente per protagonista un pistolero muto; un soggetto, si dice, suggeritogli da Marcello Mastroianni in persona.

Sergio Corbucci è certo meno famoso del collega Sergio Leone, ma i suoi film non hanno nulla da invidiare ai "cugini Leoniani". Personalmente, ritengo Corbucci un regista migliore di Leone, ma son gusti e non mi elevo a giudice universale.


Ma cosa si intende col termine spaghetti-western?

In breve, è un'espressione coniata dagli statunitensi quando i film western italiani, girati con budget ridottissimi, iniziarono a diffondersi oltreoceano. Ma a guardar meglio, c'è una differenza fondamentale tra western classici all'americana e spaghetti-western: il realismo.

Negli spaghetti-western spariscono gli ideali; i protagonisti sono antieroi, il buono e il cattivo si confondono nella polvere di paesaggi molto più aridi e desolati; ognuno agisce per tornaconto personale, in un modo o nell'altro. Abiti sporchi, strade sporche, facce sporche; fisicamente e moralmente.


La trama de Il grande silenzio appare classica, quasi un cliché: la Grande Tormenta del 1898 ha messo in ginocchio il paesino di Snow Hill, Utah; la disperazione e la fame spingono gli abitanti a rubare, e il disonesto giudice di pace Pollicut mette taglie sulle loro teste, in accordo con un gruppo di cacciatori di taglie. Tra le vittime anche il marito di Pauline, una paesana; assetata di vendetta, la donna manda a chiamare il mercenario muto Silenzio, per uccidere Tigrero.


Easy peasy, no? Il solito scontro tra buoni e cattivi... e invece no. Senza fare spoiler, cercherò di far capire perché io ami tanto questo film e lo ritenga un capolavoro assoluto.



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Pauline è un personaggio femminile che non mi sarei mai aspettato di trovare in un film del 1968, soprattutto considerando la Maria del suo ben più noto Django, di soli due anni prima: un personaggio dal potenziale sprecato, troppo passivo per i miei gusti nonostante alcuni sprazzi di "vita", se così possiamo dire. Il punto è che in Django il protagonista assoluto era Franco Nero, e glialtri personaggi restavano sullo sfondo; ne Il grande silenzio, invece, i personaggi principali restano sullo stesso piano: Silenzio, Tigrero e Pauline.

Vonetta McGee è un'attrice pazzesca, bella e di talento; la sua Pauline è forte, intelligente, determinata, coraggiosa, integra, di grande dignità e con un orgoglio pazzesco. Per me che sono un femminista, è una grande soddisfazione vederla.



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Klaus Kinski ci regala un "villain" allucinante (tra virgolette, perché è una parola da prendere con le pinze).

Il suo Tigrero si è guadagnato il mio odio sincero e completo, ma anche una perversa ammirazione per il suo carattere, la sua ambiguità, la sua ironia e soprattutto la sua faccia di bronzo. Bugiardo, manipolatore, carismatico, ha un fascino innegabile (anche grazie al fantastico doppiaggio di Giancarlo Maestri). Dove gli antagonisti classici dei western si atteggiano, minacciano, sono in breve molto "scenici", Tigrero è calmo, con un sangue freddo che fa spavento, spietato e astuto, senza frasi "da citazione"; persino i suoi abiti sono bizzarri e lo fanno spiccare nel panorama dei villain da western: una pelliccia da donna e un cappello da prete.



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E poi c'è lui... Silenzio.


Corbucci avrebbe voluto Franco Nero, ma l'attore rifiutò la parte in quanto già impegnato in un altro progetto. Io non smetterò mai di ringraziare San Galgano per questo, perché altrimenti Il grande silenzio non sarebbe il film che è.

Jean-Louis Trintignant è l'attore perfetto per questo personaggio. Non è eroico, non è idealista: è semplicemente un mercenario che uccide cacciatori di taglie per denaro... eppure è inevitabile legarsi alla sua figura, e amarlo. V'è un'eco di fragilità, in Silenzio, che lo salva da ogni minaccia di cliché che credo non risparmierebbe un personaggio dotato di voce e di un volto diverso.


Menzione dovuta a Ennio Morricone, autore della colonna sonora, che cede i toni epici di tante sue composizioni in favore di musiche drammatiche e al contempo d'una straziante delicatezza; musiche perfette per il silenzio delle nevi... per l'algore degli uomini.


Il silenzio d'una voce, il silenzio della morte.

Il silenzio d'una voce, il silenzio della morte

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Il Cavalier Scalogno qui giace e più non dice; se mai seguiste il suo consiglio, scrivetegli pure per condividere il vostro pensiero.

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