2. IL LICEO É CASA SUA - 1

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EDMUND

In una classe,
l'insegnante si aspetta di essere ascoltato.
Lo studente pure.
Ernest Abbé

Edmund Lloyd poteva essere considerato il ragazzo più popolare del liceo.
Innanzitutto, aveva dalla sua il vanto di un'affascinante provenienza straniera.
Poi, era un bel ragazzo, disinvolto nelle relazioni interpersonali.
Infine, aveva un'innata capacità nel capire le persone e l'abilità di dire e fare esattamente ciò che la gente si aspettava da lui.
In questo modo, aveva ottenuto la stima dei suoi coetanei, che avevano preso a considerarlo come la massima autorità della scuola quando si doveva stabilire chi fosse in e chi, invece, fosse out. Ovvero, chi poteva entrare a far parte dell'élite liceale e chi invece no.

«Edmund Lloyd interrogato».

Gli occhi di tutti - eccetto quelli del professore - si volsero a fissare lo studente preso di mira dalla roulette russa delle interrogazioni.
A chi conosce la gerarchia che regna fra i banchi di una classe liceale, non sfuggirà la posizione privilegiata che Edmund era riuscito a conquistare: ultima fila, a fianco di una delle poche finestre, il più lontano possibile dalla cattedra ed il più vicino alla porta. In una classe, non c'era posto più ambito di quello. Era perfetto per quattro ragioni: per dominare con lo sguardo l'intera classe, per aprirsi una via di fuga in qualsiasi momento, per distrarsi dalla lezione e, infine, per osservare il passaggio delle persone per la strada come di fronte alla tv.

Fino a qualche istante prima, il ragazzo se ne stava a fissare un punto indistinto del biancastro soffitto chiazzato di muffa, con un'aria svogliata ed assente.
Nel sentire l'appello del professore, parve piuttosto contrariato. Spalancò gli occhi, li socchiuse e, infine, corrugò di nuovo le sopracciglia, come chi non abbia ben compreso.

Il professore alzò gli occhi su di lui: «Allora, vuoi venire, o no?!».
Edmund lo fissò ancora per qualche istante, poi si alzò: «No, non proprio, ma... Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole». Allargò le braccia, in segno di rassegnazione: «Per cui...».
Avvicinò la sedia alla cattedra e vi si accasciò come su una poltrona al cinema; poi aspettò, con le mani in mano.
Quando il professore lo vide seduto in quella posa da sbruffone maleducato, disse fra i denti: «Siediti composto, o ti ritrovi un 4 prima ancora di aprir bocca».
Edmund rimase immobile: «Se non mi fa nessuna domanda, il voto non ha alcuna validità».
«Ieri non hai studiato».
Il ragazzo cambiò posizione sulla scomoda sedia di legno: «E lei come fa a dirlo?».
«Come lo so non ha alcuna importanza».
Il piede iniziò a martellare il pavimento: «Se mi valuta in base alla sua supposizione, io ho il diritto di farlo notare in presidenza!».
«Bene. Visto che dici che hai studiato, dimostramelo».
«Mi faccia una domanda, allora».
«Ti accontento subito. Visto che sei madrelingua inglese, ti farò una domanda nozionistica a cui dovrai rispondere in italiano».
«Caso mai avesse un vuoto di memoria, prof, questa materia si chiama Inglese...».
«Ma l'interrogazione verte sulla letteratura, non sulla grammatica inglese. Ciò che interessa a me è sapere se hai studiato, non se sai la lingua».
«Avanti, mi faccia questa benedetta domanda! Sono tutt'orecchi».
«Ma anche un po' cervello, mi auguro...».
Una vena sulla fronte di Edmund iniziò ballare come attraversata da corrente, ma il professore continuò: «Ecco la domanda: in che anno Samuel Taylor Coleridge incontra William Wordsworth?».
«Non ne ho la più pallida idea» rispose il ragazzo, scocciato da quella che considerava una domanda impossibile: «Ma probabilmente era un giorno di pioggia».
«1795» disse il professore, poi riprese: «Seconda domanda. Questa è facile: qual è l'anno di pubblicazione delle Lyrical Ballads?».
«1795. Anno più, anno meno» rispose il ragazzo, con un'alzata di spalle.
«Era il 1798» rettificò il professore. «Ultima domanda: perché Coleridge si fece ricoverare in una casa di cura per malati di mente?».
«Non lo so... Mi ci faccia pensare un secondo» disse Edmund, pizzicandosi il mento con fare pensieroso: «Forse perché... era malato di mente?!».
«Non mi piace il tuo tono, ragazzo. Si fece ricoverare per uscire dalla sua dipendenza dall'oppio».
«Ma sicuro! Come diavolo ho fatto a non pensarci?!» esclamò Edmund, perdendo la pazienza e scattando in piedi. La sedia, spinta all'indietro, stridette contro le mattonelle rosse del pavimento e per poco non sbatté a terra.

Il professore guardava la scena con un senso di rabbia misto a panico.
«Dove credi di andare?!» esclamò.
«A prenderle il libretto, professore!» sbottò Edmund. E pronunciò quest'ultimo termine con profondo disgusto: «Così ci può stampare sopra il suo bel 4!».
«Porta rispetto, ragazzo!».
«Me ne porti lei, invece!» ribatté Edmund.

Il professore rimase interdetto.
Si alzò in piedi e lo fissò dritto negli occhi: «Vai a farti un giro, Edmund. Sbollisci la rabbia. Facciamo i conti a casa».
Edmund scoppiò a ridere: «Giusto. I panni sporchi si lavano in famiglia, non è così? Peccato che qui non si tratti di una lite tra padre e figlio, ma di un'ingiustizia commessa da un professore nei confronti di uno studente!».
«Edmund, ora stai davvero esagerando» disse il professor Andrew Lloyd, con voce vibrante.
«Che razza di domande erano, si può sapere? Lo hai fatto apposta, a farmi quelle domande assurde, così potevi dimostrare di aver ragione...!».
Andrew fissava sconcertato il figlio. Mormorò fra sé e sé: «Teresa deve sistemare questa situazione al più presto».
«Sicuro! Altrimenti, io non ci resisto più!» esclamò Edmund: «Le due figure che un ragazzo odia di più al mondo unite in un'unica persona: il massimo della vita!».
«Edmund. Vai fuori. Immediatamente» disse Andrew, indicando la porta.
«Certo che me ne vado: vado a cercare la preside!» disse Edmund, imboccando l'uscita.
Il corridoio era deserto.
Edmund lo percorse veloce, trattenendo il respiro. Scese di corsa gli scalini bianchi e neri, simili ai tasti di un pianoforte consumati dalle dita di un gigante in preda ad un raptus creativo. Edmund si fermò solo quando si trovò nel cortile, all'aperto. Si addossò con le spalle al muro umido, da poco ridipinto di un giallo disturbante.
Chiuse gli occhi e consumò l'aria attorno a sé con un respiro profondo. Quando li riaprì, il suo volto era tornato impassibile e non mostrava alcuna traccia dell'emozione provata.

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