64. SO COSA VUOL DIRE

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Accade che le affinità d'anima non giungano ai gesti e alle parole

ma rimangano effuse come un magnetismo. É raro ma accade.

Eugenio Montale

É salito sulla corriera.
E non c'è un posto libero fuorché accanto a me.
Una folata di vento freddo sale insieme a lui attraverso le porte della corriera. Lo accompagna, lo avvolge, e mi investe di un profumo di aghi di pino.
Abbasso il volume dell'ipod.
Moonlight di Beethoven mi culla sottovoce.
É fermo, a pochi passi da me. Si stringe nel giubbotto, fingendo di non notare né la mia presenza, né il sedile libero al mio fianco. Afferra la maniglia che pende accanto alla sua spalla, con una mano inguantata di pelle nera.
Forse crede che io lo considererò arrogante se mi si siede accanto?
O non vuole sedersi, perché preferisce starmi alla larga e non sopporta la mia presenza.
Ma no, che stupida... Sono passati due mesi, e lui si sarà già dimenticato di quello che provava per me.
Cerca di star calma! E non fargli capire che ti mette in agitazione il solo fatto di rivolgergli la parola.
Non voglio che capisca quello che provo, ora che a lui non frega per nulla di me.
«Siediti...» gli dico, fingendo di essere solo felice di vederlo. Poi, imbarazzata per la paura di averlo così obbligato a sedersi quando forse lui non ne aveva la minima intenzione, aggiungo: «Se ti va...». Mi guarda con un'espressione seria e indecifrabile, ma si siede.
Forse si sta chiedendo perché mai gli rivolgo la parola, dato che sono due mesi che non ci salutiamo neppure.
É così vicino: il mio braccio non sfiora il suo solo per pochi centimetri. Proprio come il primo giorno che ci siamo conosciuti. Solo che ora sono molto più consapevole della sua presenza accanto a me, del profumo familiare del suo giubbotto di pelle, di ogni suo impercettibile movimento.
Un dolce e doloroso magnetismo mi attrae verso di lui.
Sarebbe ridicolo adesso, rimanere nel più totale silenzio: non gli farei una gran cortesia, a stare zitta, perché sarebbe come rinfacciargli di avermi fatto una dichiarazione e di avergliela rifiutata...
Se invece gli parlo come se niente fosse, e fingo di credere senza riserve che a lui non gliene frega più niente di me, allora lo metto a suo agio e supero questo stupido imbarazzo.
In realtà, è proprio quello che credo: a lui non gliene frega più niente di me...
Ma allora perché non riesco a trovare il coraggio di parlargli?
Ovvio. Perché adesso è a me, che me ne frega di lui...
«Come...» incomincio, mi blocco, poi mi faccio forza: «Come mai non sei in moto, oggi?».
Da quando ha incominciato a fare più caldo, scende sempre in moto e evita del tutto la corriera...
«L'ho prestata a mia sorella» dice lui, con voce piatta, guardando sempre di fronte a sé.
I capelli neri sulla sua fronte tremano impercettibilmente mentre lui parla. Le sue mani sul bracciolo del sedile sembrano tese nello sforzo di sembrare rilassate.
«Hai una sorella!?» esclamo al colmo della sorpresa. Io non so niente di lui!
Si volta verso di me, sorpreso... Non dice niente. Torna a guardare dritto davanti a sé. La mascella si stringe, le dita abbandonate sul sedile fremono. Risponde freddamente: «Sì». Le sue labbra si tendono appena per far passare il suono. Rimangono rigide.
«Non lo sapevo» dico. E poi aggiungo: «Più grande?».
«No. Ha un anno e mezzo in meno di me».
Com'è freddo e distante. Non sembra imbarazzato, ma piuttosto infastidito.
«Ah, bene» dico, senza nemmeno pensarci.
Di nuovo sembra sorpreso, ma poi ritorna alla sua impassibile freddezza. E fra noi cade un silenzio che questa volta non sarò in grado di spezzare.
Sembra consapevole che non riesco a staccargli gli occhi di dosso, ma fa finta di non accorgersene. Si irrigidisce solo di più.
Dopo un paio di minuti che sembrano un'eternità, tuttavia, è lui a parlare:
«Grazie per non aver detto nulla agli altri... E per aver lasciato il giornale. Non era necessario» dice, con quella che sembra una calma imperturbabile.
La sua voce è dolce, appena un po' brusca.
Io, imbarazzata più che mai, rispondo: «Prego...» e, dopo un paio di minuti, aggiungo: «Come l'hanno presa, quando me ne sono andata?».
Lui rimane in silenzio. Il suo petto si solleva e si abbassa lentamente. Non sembra aver voglia di rispondere a questa domanda.
«Erano tutti piuttosto arrabbiati. Gli sei... mancata».
Quest'ultima parola sembra essere stata pronunciata con particolare fatica... Forse anche a lui sono mancata?
Ma no, non essere stupida!
«Anche loro mi sono mancati... Più di quanto pensassi» dico e poi, sentendo il sangue affluire alle guance, mi volto verso il finestrino, buio e appannato. La pioggia picchietta sul vetro in tono accogliente e cantilenante insieme.
Dopo quelle che sembrano ore interminabili, Edmund mi sorprende con una frase inaspettata:
«Puoi tornare sul giornale, se vuoi».
Anche questa volta, mi risponde senza guardarmi.
Un misto di felicità e di panico mi spingono a fissarlo. Cosa significa? Non certo che lui se ne andrebbe...

Vuol dire...
Oh, mio Dio... So cosa vuol dire.
Significa che non gli darebbe più fastidio se io vado sul giornale.
La mia presenza non gli fa più né caldo né freddo.
Il panico vince del tutto la felicità appena provata. E io non riesco più a riordinare i miei pensieri in modo tale da rispondergli.
La lingua mi si ingarbuglia nel filo contorto dei miei pensieri, mentre dico: «Sei... ne sei sicuro?».
Con estrema lentezza, o forse sono io che ho questa impressione, risponde:
«Sì».
É terribile l'effetto che questo semplice "sì" può farmi, se pronunciato da lui.
«No, grazie. Non mi vorrebbero più».
Spero che non interpreti questa frase come riferita anche a lui...
Il magone cerca di spingere fuori dai miei occhi un fiume di acqua salata, che sgorga dal mare in burrasca che mi sconvolge il cuore.
«Ti sbagli».
Non sa quanto mi faccia piacere sentirglielo dire!
«Non posso più tornare, dopo tre mesi. Non saprei cosa dir loro come scusa...».
«Non ti preoccupare per questo» dice lui, sempre guardando dritto davanti a sé.
«Sei molto gentile, a chiedermelo, ma, senza una giusta scusa, non potrei tornare».
Silenzio.
Dopo un'altra eternità, aggiunge:
«Non c'è bisogno di alcuna scusa. Sanno già tutto».
«Sanno tutto!?» esclamo, stupefatta.
«Sì».
«E come hanno fatto a sapere tutto?!».
«Glielo ho detto io».
Le sue dita tamburellano sul sedile, al ritmo di una musica iper- veloce, cui non riesco a stare dietro.
«Ma... perché l'hai fatto? Non era necessario...!».
«Lo era, invece» dice, evasivo e brusco.
«Grazie lo stesso, ma... non posso» cerco di chiudere il discorso, preoccupata più che altro di impedire al vulcano che ho nel cuore di eruttare fuori tutte le mie emozioni.
«Come vuoi» dice, secco.

Tutto torna in silenzio.
Tranne la pioggia che picchietta sul vetro.
Ormai è chiaro. Gli è del tutto passata... Parlava in modo tranquillo, freddo e distante. Non era per nulla imbarazzato, mentre io lo ero alle decima potenza.
L'ho perso, forse per sempre, e tutto per la mia ottusità!
Sento la sua presenza alla distanza di un braccio teso.
Al di là di quel braccio che non oso stendere, c'è la presenza tangibile di un'altra personalità: forte, intelligente, ricettiva.
Anche senza alzare lo sguardo, so che i suoi occhi, le sue sopracciglia, la sua bocca hanno, a tratti, moti impercettibili che sono sempre il segno di un pensiero o di un'emozione. Forse, quando quei pensieri e quelle emozioni erano rivolte a me, erano di stima, di interesse, di affetto... Adesso, ormai, sono di indifferenza o, forse, addirittura di sdegno.
É forse questo che si dice essere innamorati?
Per la prima volta, non sono neppure in soggezione: molto più forte è invece la sensazione di aver scoperto un legame tra due anime sconosciute, così diverse eppure così simili. No, che dico? Questo è assurdo ed impensabile. Non è un legame segreto fra due anime, quello che credo di sentire dentro di me, ma, piuttosto, un'attrazione a senso unico. È la mancanza di ciò che avrebbe potuto essere e che non sarà mai.



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