Canto XXI

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CANTO XXI

Noi sem levati al settimo splendore,

che sotto 'l petto del Leone ardente

raggia mo misto giù del suo valore.

(Paradiso XXI 13 – 15)

Taide sparì tirandosi dietro Clarissa e Aglauro, forse per fare un'entrata trionfale, e lasciò me e Beatrice ad attraversare la chiesa, pilotati da Vincenzo verso una panca libera. Se di fronte a noi, presso l'altare, non ci fossero già stati un nervoso Daniele e Anastasio Uberti, sarebbe quasi sembrato che fossimo noi due gli sposi. A quel pensiero lo stomaco mi si contrasse dolorosamente. Guardai Beatrice per cercare di capire se fosse stata colpita dallo stesso pensiero: già eran li occhi miei fissi al volto della mia donna, e l'animo con essi, e da ogni altro intento s'era tolto.

E quella non rideva; ma: - S'io ridessi – mi cominciò – tu ti faresti quale fu Semele quando si fece di cenere; ché la bellezza mia, quanto più vai avanti nel tuo viaggio, se non si temperasse, tanto splenderebbe, che il tuo potere mortale, al suo fulgore, sarebbe fronda che trono scoscende. Connetti la mente ai tuoi occhi, e fanne specchi alla figura che in questo specchio ti sarà parvente.

Qual sapesse qual era la pastura del mio viso nel beato aspetto quand'io mi trasmutai ad altra cura, conoscerebbe quanto m'era grato ubbidire alla mia celeste scorta, contrappesando l'un con l'altro lato.

Scivolammo sulla panca, accanto a Costanza, impegnata a guardare com'eran vestite le invitate.

In chiesa faceva caldissimo. Dietro di noi, due anziane signore recitavano il rosario con voce monocorde, e in fondo, un neonato strillava come se lo stessero scannando, mentre la madre cercava di calmarlo. Il fratello maggiore, per fare lo spiritoso, intinse le dita nell'acquasantiera e spruzzò il bambino. Forse fu un caso, ma mi parve che gli strilli aumentassero.

Una campana tintinnò. Ci fu il rumore delle sedie che raschiavano il pavimento mentre gli invitati si alzarono. Un organo invisibile cominciò a suonare una marcia. La porta sul fondo si spalancò e Taide avanzò lungo la navata centrale, preceduta da Aglauro che lanciava petali di rosa in aria, e seguita da Clarissa, che le reggeva il velo e più di una volta rischiò di strapparglielo scivolando sui petali.

Taide emanava un tale splendore, ch'io pensai che ogni lume che par nel cielo fosse quindi diffuso. E quando raggiunse Daniele si fece così chiara, che io mi dissi: "Io veggio ora ben l'amore che tu prima ostentavi".

Lanciai un'occhiata a Beatrice. Quella ond'io aspetto il come e il quando del dire e del tacere, si stava ferma; onde mi stetti fermo e in silenzio anch'io.

Il sindaco di Leuca, che celebrava il matrimonio (padre Tommaso non poteva perché sia Taide che Daniele erano divorziati), era molto vecchio e molto sordo.

-Vuoi tu, Daniele, prendere Taide questa donna come tua legittima sposa, onorarla e rispettarla, in ricchezza e povertà, in salute e malattia, nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non vi separi?

-Lo voglio – disse Daniele.

-E vuoi tu, Taide, prendere Daniele come tuo legittimo sposo, onorarlo e rispettarlo, in ricchezza e povertà, in salute e malattia, nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non vi separi?

Notai con sorpresa che a Taide non veniva richiesto di giurare obbedienza al marito.

-Lo voglio – disse Taide.

-Come?

-Lo voglio.

-Come?

-Lo voglio! – urlò Taide.

-Va bene, ho capito, non c'è bisogno di gridare – disse il sindaco, e li dichiarò marito e moglie. 

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