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Apre gli occhi battendo le palpebre. Le mani le tremano mentre cercano di tirare via le coperte. Ha sudato freddo, di nuovo. Un brivido la scuote, strappandole dai timpani i suoni di quel sogno oscuro che continua a ripetersi.

Sono voci familiari. Sa di conoscerle eppure non hanno nome, non hanno viso.

Non ci sono immagini nei suoi sogni, solo suoni e note stonate in melodie tetre. Vorrebbe essere in grado di decodificarli, comprenderli, manovrarli. Quando ci prova si ritrova a stringere il vuoto.

Scosta le coperte di lato, sbuffando e avvicinandosi alla finestra. Non è ancora l'alba, il mondo è silenzioso, ancora addormentato. Sta attenta a non far rumore, muovendosi in punta di piedi, le ossa scricchiolano come pezzi di vetro calpestati contro il terreno.

Scuote le spalle, cercando di sollevarsi dal torpore del sonno. Un gesto abituale, meccanico per quanto inutile. Il suo fisico è provato a ogni risveglio. Appunta mentalmente di dover telefonare al medico. Se ne dimenticherà.

A passi piccoli e svelti arriva nell'angusta cucina della sua casa. Preme l'interruttore della luce e la lampadina sembra stanca quanto lei. Si accende e si spegne sei volte prima che inizi a irradiare la luce nella stanza con un disturbante ronzio.

Lucia prende un bicchiere, lo riempie d'acqua fino all'orlo e lo porta alle labbra, sorseggiando piano i suoi ventiquattro sorsi d'acqua mattutini. Mette giù il bicchiere. Il venticinquesimo e il ventiseiesimo sorso rimangono sul fondo quando lo ripone nel lavabo. Li osserva corrucciandosi: non riesce mai mandarli giù, non riesce a evitare di sprecarli. Con le unghie gratta sulla pelle del braccio sinistro, fino a quando l'epidermide non si arrossa. Solo a quel punto si ferma e scuote la testa. Afferra il bicchiere di nuovo e butta giù l'acqua. Lo stomaco produce un rumore di protesta. Lo ignora e va a vestirsi.

Lo specchio opaco le permette a stento di riconoscere i colori di ciò che ha indossato. Batte le palpebre due volte, strizzando gli occhi con troppa forza, poi esce.

Sono le sette quando arriva al Ponte Vecchio. Alza lo sguardo, fino ad allora tenuto fisso sui suoi piedi, e la vede. Con le gambe penzoloni nel vuoto, verso il fiume, seduta sulla ringhiera arrugginita, la aspetta Eleonora.

Non si chiama davvero così, ma Lucia pensa che quel nome sia adatto agli occhi neri che le occupano il viso dai lineamenti affilati e ai capelli scuri che porta sempre raccolti in modo complicato.

Quando la raggiunge, si ferma. Eleonora fa un giro agile su se stessa, balzando giù sul ponte con una lieve spinta. Le sorride e raccoglie la sua borsa. Poi inizia a camminare, allungando il passo solo quando è sicura che Lucia la stia seguendo.

– Oggi c'è proprio un bel sole – dice, la voce simile al cinguettio di un pulcino. Lucia alza gli occhi che si scontrano con una coltre di nuvole piuttosto fitta. Arriccia il naso, ma non dice nulla. Quando hanno quasi raggiunto la Cinta, là dove finisce il terreno battuto, Eleonora si ferma e attende che Lucia muova il primo passo sull'asfalto consumato. A quel punto le sorride e si volta, ripercorrendo il sentiero a ritroso. Lucia la osserva fino a che diventa una figura indistinta. Anche quel giorno hanno indossato gli stessi colori. Solo a quel punto torna alla sua giornata.

Mentre le nuvole si dissolvono, un raggio di sole illumina timidamente la città di cemento.

Prende un respiro e s'incammina per le vie deserte.

OblioWhere stories live. Discover now