Capitolo 11

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-Ho fame- mi lamento non aspettando realmente una risposta.
-E allora?- domanda lui, scorbutico.
-Partiamo dal fatto che, se io ho fame, diventa anche un tuo problema; non stavo parlando con te- rispondo indispettita.
-Perché sarebbe un mio problema?- domanda stizzito.
-Perché hai accettato di contribuire alla mia sopravvivenza...E anche perché ci metto pochi secondi a sfilarti quell'orologio dal braccio- dico indicando l'orologio. Fa per ribattere ma poi non dice nulla. Saggia decisione.
Con la testa fa cenno in una qualche direzione.
-Li ci sono dei trifogli- afferma. Mi volto ed effettivamente li vedo. Non vorrà mica che io...
-E allora?-
-Mangia quelli- afferma come se fosse la cosa più normale del mondo.
-Io non mangerò dei trifogli!-
-Allora muori. Poco mi importa- sincero in quelle parole.
-Tu -Tu li hai mai mangiati?- domando.
-Una volta- risponde a testa bassa.
-Una volta quando?- domando per curiosità.
-Che ti frega?- domanda acido.
-Era per...curiosità- rispondo.
-Tienitela dentro questa curiosità del cazzo!- mi urla contro. Vorrei ribattere, ma tanto sò che sarebbe inutile.
Colgo i trifogli e mi siedo poco distante da...Lui. In effetti non gli ho ancora chiesto come si chiama.
-Senti ma...Come ti chiami? Non posso continuare a parlare con te senza neanche sapere il tuo nome...-
Si volta verso di me con uno sguardo indecifrabile.
-Potresti anche rispondermi...- borbotto.
-Perché dovrei?-
-Perché solitamente si risponde a una domanda-
-Sei patetica- afferma con tono superiore.
-Non mi interessa se mi consideri patetica, mi interesserebbe sapere come ti chiami ma, a quanto vedo, è troppo faticoso anche solo guardarmi negli occhi per te!- sbotto al limite della sopportazione.
-Tu non dovresti nemmeno guardarmi negli occhi!-
-Perché?- so la risposta.
-Perché? - domanda divertito in tono beffardo. -Perché sei solo un'ebrea, solo un essere inferiore a cui è stata concessa la vita!- afferma.
-Questa dove l'hai sentita? Dal tuo papà ufficiale?-
-Tu...tu- lo interrompo.
-Io,- comincio -ho capito benissimo che tipo di persona sei: un viziatino del cazzo a cui mamma e papà non hanno mai fatto mancare niente! Uno a cui hanno sempre dato ragione in tutto e per tutto! Un raccomandato, figlio di papà, che indossa quella divisa solo perché è "il figlio dell'ufficiale"- urlo poco distante da lui.
-Non nominarla nemmeno mia madre!- mi urla contro.
Un punto debole...
-Quindi non vuoi che parli della tua mammina?- chiedo con fare innocente.
-Smettila porca puttana!- mi urla contro. I suoi occhi si fanno lucidi, sta per piangere, né sono sicura. Voglio dargli il colpo di grazia.
-Quindi se ti dessi del figlio di puttana ti arrabbieresti?- chiedo fingendomi sempre innocente. Con una forza che non credevo avesse si alza in piedi, la sua espressione è dolorante, come il resto del corpo. Lui però non demorde.
Commetto il grande errore di rimanere immobile, stupita dalle sue capacità fisiche.
In un attimo sono a terra, lui è su di me, e mi tira pugni. Pugni violenti, di quelli che non dimentichi.
-Non ti azzardare più a dire una parola su mia madre!- urla tra un pugno e un altro.
Si ferma, e io ne approfitto per respirare, per quanto si possa respirare singhozzando. Mi porto le mani in volto mentre lui si accovaccia affianco a me.

Difficilmente mi metto a sedere sulla terra, mentre fisso le mie mani tinte del mio sangue. Mi sanguinano il naso e il labbro inferiore, inutile dire quanto faccia male. Mi volto verso di lui, che, sdraiato a terra, in una smorfia di dolore, tiene una mano sulla sua pancia. La camicia che indossa è tinta di sangue dove lui tiene la mano.
Ancora intontita e dolorante, mi avvicino a lui, che, occupato a...Non morire (credo), non si accorge di me. Gli scosto delicatamente la mano, fa per dire qualcosa ma il dolore glielo impedisce e sinceramente ne sono felice: almeno non dovrò sorbire tutti i suoi insulti.
La camicia, sporca di sangue, cela dietro di sé una ferita, che credo dovrei medicare...Anche se io non so medicare una ferita. L'unico modo per vederla è...sbottonargli la camicia. Bene, direi.
Comincio a sbottonargli la camicia.
-Che...che fai?- sibila dolorante.
-Non voglio avere nessuno sulla coscienza!- mentre parlo il labbro mi fa malissimo.
Scosto la camicia dalla "zona rossa". Non appena lo faccio, un senso di vomito si fa strada nel mio corpo: una cicatrice (che probabilmente gli ho fatto io, a suon di colpi di bastone), cola sangue in maniera esagerata. Senza sapere cosa fare comincio a sbottonarmi il...Lo straccio che indosso, senza staccare gli occhi dalla ferita. Mi tolgo la...benda, la fascia, quel che è, per poi bendare con essa la parte bassa della sua pancia, ovvero dov'è la ferita... la cicatrice insomma.
Rimango dunque senza sapere cosa fare, lo guardo e con mio gran sollievo vedo i suoi respiri diventare più lenti, più normali. Tengo la mano sulla ferita, non sapendo bene cosa fare. Degludisce, ormai...Salvo,  spero.
-Stai...stai bene? Va meglio?- domando apprensivamente, ma con cautela.
Vuole dire qualcosa, lo vedo, ma fa troppa fatica.
-No, non...non dire niente se non ce la fai... mi ringrazierai dopo- scherzo io, e sul suo volto vedo un'espressione serena, quasi divertita.
Perché l'ho salvato? Potevo lasciarlo morire, ma il problema è che ho troppa pietà persino per un essere come lui.

Se solo fosse eternoWhere stories live. Discover now