capitolo 25 - "normale"

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Arrivai a casa quel pomeriggio. Rientrare mi faceva un effetto strano, era come tornare in una prigione. Sapeva di chiuso e di solitudine. Come al solito non c'era nessuno. Mi ricordò che per un paio di mesi avevo passato le mie giornate lì, vuote, sul letto, ad ascoltare la musica, con lo sguardo perso nel vuoto. O sul balcone, a fumare. O in bagno, al buio. 

Casa mia era diventato il simbolo della mia prigionia, del mio dolore. Prima non la percepivo così. Prima era il posto in cui trovavo conforto. In cui annegavo il mio dolore. In cui riordinavo i miei pensieri, in cui stavo da sola e mi sentivo meglio.

Ma dopo una sola giornata sembrava diverso. Ora sembrava soffocante. Mi resi conto di quanto quel posto sembrasse soffocante. Di quanto camera mia fosse disordinata, buia e chiusa. Di quanto sembrasse inquietante quel telo nero che copriva lo specchio. Lo tolsi immediatamente, lasciando che l'immagine del mio corpo si riflettesse in quella superficie che mi era sembrata così pericolosa. 

Sì, ero diversa. Qualcosa era cambiato. Ero diversa dalla ragazza che ero stata negli ultimi mesi. Ed ero diversa dalla ragazza che ero stata prima. Finalmente iniziavo a stare meglio. Mi sentivo pronta per riprendere a uscire, per riprendere la mia vita normale. 

Avrei ricominciato ad andare a scuola. E forse avrei smesso di fare avanti e indietro dall'ospedale. 

Quella sera decisi di cenare con i miei, cosa che succedeva molto di rado. Gli dissi come mi sentivo. 

-Oh allora finalmente ti sei data una svegliata! Pensavi di continuare così a non fare nulla tutto l'anno? - disse mia madre. Poi bisbigliò a mio padre, pensando che io non sentissi: - pensi che nostra figlia stia tornando normale

Mio padre guardò. E sorrise. 

-Sì! - bisbigliò a mia madre. - Sono contento che tu stia meglio Teresa. Andremo anche a parlare con il dottore, ti va? 

In quel momento avrei voluto urlare. Avrei voluto andarmene. Cosa intendevano per normale? Una che non ha problemi mentali? Una che non è lesbica? Avrei voluto dirgli che se la vedono così, non sono normali loro. O che nessuno è normale. Che siamo tutti diversi, che non possono pretendere che io sia fatta con lo stampino. E che dovrebbero accettarmi con tutti i difetti. 

Ma lo sapevo. Era chiaro che si vergognavano di me. Era chiaro che non mi volevano così. E io avevo un così disperato bisogno di approvazione. Quindi no, non mi conveniva fare una scenata. Forse avrei potuto fingere con loro. 

-Sì, va bene, mi va. 

Forse non sarebbe stato così difficile. In fondo avevo 17 anni. Mancava poco a diventare maggiorenne. E poi avrei potuto andarmene ed essere indipendente. Perché era anche difficile vivere in una famiglia che non ti considerava normale. Che non ti considerava normale per le persone che amavi. Che non ti considerava normale perchè avevi bisogno di prenderti cura della tua salute mentale. Mi faceva arrabbiare tantissimo. Ma del resto cosa potevo fare? Niente li avrebbe convinti del contrario. Dovevo solo aspettare. 

Così il giorno dopo ricevetti la notizia che mi diminuivano le dosi. Dopo due mesi stavo davvero guarendo. Dovevo continuare ad andare agli incontri, a parlare con il dottore, ma sarebbe bastato anche meno di frequente. 

Nei corridoi incontrai lo sguardo di Marco e Viola. Loro erano ancora allo stesso punto di prima. E mi dispiaceva. Probabilmente sapevano che io stavo meglio. Gli sorrisi, e loro mi salutarono. Ma non era come prima. 

Avevo detto che non mi importava di loro, che mi avrebbero solo aiutata a tornare dall'altra parte dello specchio. Ma ora che io stavo meglio e loro no, mi sentivo in colpa. Non ci conoscevamo da tanto, ma avevamo condiviso delle cose che altri non avrebbero capito. E questo in qualche modo mi legava a loro. E mi dispiaceva che invece loro non stessero meglio. A volte mi sembrava che fosse colpa mia. Infatti da quel giorno smettemmo di frequentarci, o di uscire. Ci vedevamo ogni tanto e ci salutavamo, ma finiva lì. Non c'era nient'altro. E non capivo perché. Mi dispiaceva perché forse alla loro amicizia ci tenevo. 

Ero cambiata in quei mesi, e non sapevo se la nuova me fosse ancora adatta alla vita di prima. Forse avevo bisogno di cambiare. Forse avevo bisogno di cose diverse, di persone diverse. Ma ormai, parlando con i miei di come stavo, avevo firmato la mia condanna. Avrei dovuto tornare a com'era prima. Avrei dovuto fare la recita della figlia "normale". Ma ero davvero pronta?

voglio solo te // LGBTDove le storie prendono vita. Scoprilo ora