4. Dream Glow

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Dormire si rivelò ben presto utopico.

Alle cinque e quarantacinque ero davanti alla porta dell'appartamento. In qualità di manager, avevo ricevuto un badge identificativo con chip magnetico da mostrare in portineria per i controlli. Avevo trascorso ben quindici minuti del mio tempo in compagnia del signor Song, un discreto quanto sospettoso addetto alla security, un uomo di mezza età campione di krav maga, che mi aveva interrogata per assicurarsi che potessi passare, nonostante vivessi a cinquecento metri e nello stesso complesso residenziale. Con le altre band non avevo avuto tutti quei problemi, semplicemente perché nonostante fossero degli artisti strepitosi non erano i BTS.

Bussai. La riunione era programmata per le sei del mattino, e mi domandai se fossero già svegli, e se avessero effettivamente dormito tutti nell'appartamento. Magari stavano facendo colazione, o docciando, o qualsiasi altra cosa. Non avrei mai voluto violare la loro privacy. Ero una professionista, non una dilettante.

Fu Namjoon ad aprire la porta.

«Buongiorno, Kim Namjoon» salutai, più rigida di quanto volessi in realtà, con un breve inchino.

«Buongiorno a te, manager Lee. Prego, entra pure».

Kim Namjoon era in cima alla lista delle persone che più di chiunque altro avevano segnato il mio percorso di crescita emotiva. Sfilargli accanto mentre entravo in casa sua per lavorare con lui mi fece sentire come se i miei piedi fossero posseduti da milioni di farfalle pronte a staccarsi dal pavimento. Namjoon aveva la bellezza ed il carisma del leader, ed ogni volta che lo guardavo non potevo fare a meno di scoprire quanto fosse dannatamente perfetto per quel ruolo. Era già pronto, vestito di tutto punto, con i capelli color oro rosa perfettamente pettinati. Mi permisi di credere che volesse farmi una buona impressione, visto che il giorno precedente li avevo incontrati in tuta, e la cosa mi lusingò.

«Gradisci del caffè? Lo sto preparando. I ragazzi saranno qui a momenti, e manager Hoboek dovrebbe arrivare presto» spiegò Namjoon, professionale come un segretario, mentre mi indicava uno sgabello libero. Erano tutti liberi, in verità. E sul tavolo non c'era nulla, a parte una macchia di quella che sembrava essere salsa agrodolce pulita in tutta fretta.

«Kim Namjoon, posso chiederti una gentilezza che spero non fraintenderai?» esordì, tornando in me. Lui mi fece un cenno d'assenso, interdetto.

«Posso preparare io il tavolo per la riunione?».

Namjoon sorrise, rassicurandomi. Adoravo il suo sorriso così accogliente, e sincero, i suoi modi cordiali, da vero gentleman.

«Allora vado ad verificare che i bambini siano svegli, e con bambini intendo Jungkook e Yoongi. Puoi occuparti tu della porta, se arrivano gli altri?».

«Contaci. Grazie» mi inchinai, e con un sorriso di incoraggiamento, Namjoon si allontanò verso rumori imprecisati e spaventosi.

«Jungkoooooooooook! Esci dalla doccia!».

«Taehyuuuuuuuung dove accidenti sono le mie scarpe di Chanel?».

«Jin! Jin! Aiutami, qualcosa non va con il colore dei miei capelli!».

Sconcertata, cercai di associare quelle richieste urlate ai volti angelici che conoscevo, ma senza successo. Decisi di tornare a concentrarmi sul mio lavoro, mentre una melodia jazz si levava da un punto imprecisato del corridoio, sovrastando lo scrosciare delle docce.

Preparai il bollitore da litro.

Non sarebbe stato affatto semplice. Lavorare con altre band aveva rappresentato un incarico come un altro - piacevole, coinvolgente, dannatamente stimolante e al contempo frustrante - in quanto nessuno suscitava in me emozioni di quella portata. In linea di massima avevo assistito star soliste e gruppi di performer talentuosi, simpatici, oltremodo belli e con un seguito notevole, ma dei quali mi limitavo a canticchiare i tormentoni e ad assicurarmi che avessero il miglior servizio di management possibile. La cosa mi aveva concesso di affezionarmi a loro quanto bastava per svolgere un ottimo lavoro, ma il coinvolgimento era sempre rimasto puramente professionale. Mentre disponevo le tazze sul bancone della cucina realizzai brutalmente che, per quanto training autogeno avessi fatto, quella volta sarebbe stato maledettamente diverso. La fangirl che era in me e che mi aveva condotta su quella strada scalpitava all'idea che quella fosse la loro cucina, nella loro casa, e che io stessi preparando loro il caffè stringendo le loro tazze. Di li a poco li avrei rivisti, e una volta chiusa quella porta avrei dovuto aiutarli a gestire ed organizzare le loro vite private e professionali, accudirli, guidarli, tenerli in forma e in cima alle classifiche. Insomma, erano i miei protetti, il mio lavoro. Avevo sognato per anni questo momento, speravo di poter essere io ad assisterli un giorno, mentre trasportavo vassoi per i trainee e per manger affermati, e col tempo mi ero detta che andava bene così, che facevo un lavoro magnifico e che se non avessi avuto occasione di lavorare con loro sarebbe cambiato poco. E invece era accaduto. Il loro futuro era nelle mie mani. Credevano in me. Hitman Bang aveva visto in me qualcosa, ed io ero certa di essere la persona giusta. Dovevo mettere da parte l'emotività ed essere pronta a fare da manager, madre, sorella, insomma tutto.

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