30. Il mio cazzo di cuore

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Taehyung guardava fuori dalla finestra.

Era una giornata torrida, il cielo denso e sporco di Seul premeva sui vetri del palazzo, insabbiando il panorama. Mi domandai cosa stesse osservando in quello sprazzo di nulla, ma in un attimo compresi che, semplicemente, non voleva guardare me; non più. Per tutta la durata del racconto aveva inchiodato le sue iridi di carbone alla mia nuca, al dolore che si era sparso sul mio viso come un morbo, una malattia. Forse aveva cercato qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che potesse salvarlo dallo sconforto in cui stava sprofondando.

Evidentemente, non l'aveva trovata.

Restammo in silenzio per un tempo indefinito, ciascuno con i propri pensieri.

Cercai lo sguardo di Jimin al mio fianco, piegato sulle ginocchia. Mi aveva tenuto la mano e ad ogni parola la sua presa si era fatta più salda, ma i suoi dolci occhi ora tradivano un affetto sfilacciato, di circostanza. Jin serrava la mascella, le ciglia scure fisse su Taehyung, improvvisamente distante, scivolato in un mondo tutto suo. Non avrei saputo dare un nome a ciò che stava succedendo, ma fui certa che fosse pericoloso.

Nessuno dei ragazzi riuscì a guardarmi davvero e per un attimo temetti di averli persi per sempre, sconvolti dalla mia stupidità, spaventati dalla mia codardia. Nessuno eccetto Yoongi. Immobile come una statua di sale, uno sentimento illegibile nei piccoli occhi a foglia. Dite qualcosa implorai nella mia mente, fate qualcosa, qualsiasi cosa, ma in corpo non avevo nemmeno un filo di fiato.

Improvviso come un tuono Taehyung parlò, e alla sua voce grondante risentimento sentì l'intero edificio crollarmi addosso, spezzarmi il cuore.

«Come hai osato pensare, anche solo per un istante, che avremmo accettato questa collaborazione?». Si voltò in un lampo, il volto contratto in una maschera di livore, e l'apprensione che mi aveva riservato poco prima scomparve, divorata da un sentimento oscuro, delirante. Era furioso, e il sorriso storto con cui sputò ogni parola denotava un disgusto viscerale, velenoso. «Tu vuoi che noi - che io - maledizione, mi faccia sponsorizzare da uno stronzo che ti ha scambiato per una puttana?».

Gli altri emisero dei rantoli allibiti, dei mormorii di disapprovazione. Jungkook portò le mani alla bocca, incredulo.

«Taehyung!» sibilò Jimin, costernato, «non ti devi permettere, non dire cose-» ma Taehyung era fuori di sè, agitava le braccia, spingeva gli oggetti.

«Cosa, Jimin? Non dovrei dire la verità? Beh, qualcuno dovrà pur farlo! Credi che se Namjoon non fosse venuto qui lei ce l'avrebbe detto?» sputò, indicandomi malamente, quasi non fossi presente.

«Certo che lo avrebbe fatto! Diglielo, Bee» pigolò Jungkook, implorando un mio cenno, gli occhioni addensati dalla commozione, «diglielo che tu... che tu ce lo avresti detto... vero? Vero, Jimin?».

Ma Jimin si fissava i piedi, improvvisamente atono, perché proprio no, non glielo avrei detto, avrei cercato di tenere il mio passato e le sue brutture lontano dalla loro bellezza, dalla nostra vita, e Jungkook sembrava l'unico a non volerci credere. Taehyung rise di una risata sbagliata, grottesca.

«Sei un illuso, Jungkook! Avrebbe accettato, perché la nostra carriera è più importante, perché i BTS meritano collaborazioni, sponsor, e chi se ne fotte del mio cazzo di cuore? Non fotte mai un cazzo a nessuno dei nostri cazzo di cuori!».

«Taehyung! Calmati!» urlò Hoseok, provando a raggiungerlo, ma Taehyung se lo scrollò di dosso con un solo movimento, il corpo gonfio e infervorato come mai lo avevo visto.

«Calmarmi? Quindi domani dovrei lavarmi, vestirmi e pettinarmi per sorridere a un bastardo che ha cercato di venderla ad un altro bastardo, dovrei stringere la mano ad uno che l'ha fotografata mentre la fotteva?».

E soffriva, glielo leggevo negli occhi, soffriva e avrei voluto giurargli che non lo avremmo fatto, che avremmo rinunciato alla collaborazione; che avrei denunciato Yoshi quel giorno stesso, ma Taehyung era fuori di sè dalla rabbia, masticava sillabe ustionanti, parole che mai avevo sentito sulla sua lingua sempre dolce.

«Adesso basta!» tuonò Namjoon, afferrando i polsi di Taehyung come se volesse arrestarlo, «adesso tu ti devi calmare, prima che persino il signor Bang senta i tuoi cazzo di discorsi del cazzo!».

Eppure Taehyung sembrava incapace di darsi un contegno. Solo dopo, quando Jin gli fu alle spalle per massaggiarli la testa sussurrando parole di conforto, sembrò indebolirsi, e alla rabbia cieca subentrò una tristezza così buia da spezzarmi il cuore in tanti pezzettini aguzzi.

«Tu sei fuori di testa, Bee. Sei... cazzo, sei... al diavolo» e scoppiò in lacrime nascondendo i singhiozzi nella camicia del suo hyung.

Su di noi calò un silenzio siderale. Ora sì che mi guardavano tutti, ciascuno con i propri dubbi, dolori, preghiere. Ciascuno con le proprie domande ma con una decisione comune già presa.

«Molto bene, possiamo dire al nostro avvocato di ritirare la collaborazione» esclamò Hoseok d'un fiato, cogliendo al volo quella quiete apparente, ma come un fulmine nel sereno Taehyung riprese a gridare, emergendo dalla camicia inzuppata di Jin.

«Ma tu ce l'hai un po' di rispetto per me? Per noi? Tu puoi fare quel cazzo che ti pare, ma noi non siamo delle puttane, manager!» e fu quel noi piazzato con violenza per escludermi, fu quel noi pronunciato con un'asprezza che non gli avevo mai visto in bocca a farmi morire davvero.

«Mi stai dando della puttana?» ringhiai, scattando in piedi, e Jungkook si alzò di riflesso per afferrarmi il braccio, ma ormai ero faccia a faccia con Taehyung, e la voglia che generalmente avevo ogni giorni di baciarlo si era ormai tramutata nell'urgenza di dargli una testata in mezzo agli occhi.

«Lo stai facendo da sola» mi schernì, e a quel punto avvertì la mia mano animarsi di una rabbia mai provata. Taehyung mi intercettò, imprigionandomi il polso, e il mio inutile tentativo di schiaffeggiarlo si dissolse nella sua morsa glaciale. Non l'avrei mai colpito per davvero, e a giudicare dallo sguardo compassionevole che mi rivolse doveva saperlo anche lui. Jin si frappose tra noi.

«Va bene, vediamo di darci una calmata».

«Io sono calmissimo, hyung» sussurrò, e con uno strattone, mi liberò.

«Ritirerò la collaborazione» annunciai, senza smettere di fronteggiare Taehyung con lo sguardo. Jungkook si accovacciò contro la mia schiena, facendomi sentire i battiti furiosi del suo cuore impazzito. Grazie al cielo, oh, grazie al cielo recitava dentro la mia giacca. Namjoon si avvicinò per scrutarmi, severo.

«Park Chisoo la farà, manager. È il nostro avvocato» precisò, le braccia conserte come quando non ammetteva repliche, ma io risi di una risata involontaria, beffarda; nessun avvocato avrebbe placato Yoshi, nessun altro sarebbe riuscito a sbarazzarsi della sua presenza infettiva. Nessuno a parte me. Io lo avevo condotto a noi, io l'avrei debellato.

«Devo farlo io, non Chisoo. Voi non conoscete Yoshi» sentenziai, ma una voce d'oltretomba m'interruppe.

«E non vogliamo conoscerlo». Dopo quello che mi parve un'eternità, Yoongi parlò. Era rimasto incollato al muro come un geco, silenzioso eppure letale. Fissava un punto imprecisato del soffitto, forse una macchia di vernice un pezzo di polvere la tela di un ragno, o forse no.

«Lascia che ti faccia una proposta, signorina Lee. Hai mezz'ora per andare dal capo e raccontargli tutto. Fai ritirare questa cazzo di collaborazione a Chisoo, prima che qualcuno vada a spezzare le gambe a quel porco». E l'odio di cui erano intrise quelle ultime parole mi suggestionò in un modo che non avrei saputo descrivere.

«Yoongi, questa è una cosa delicata» azzardai, consapevole del fatto che non mi avrebbero permesso di vedere Yoshi da sola, ma Yoongi inclinò appena la testa verso di me, e tanto bastò a farmi venire i brividi.

«Mezz'ora, manager. Non un fottuto minuto in più».

«Altrimenti?» esalai, incolore.

«Tu non sei nella posizione di fare minacce, manager» sibilò Taehyung, azzerando la distanza tra i nostri corpi in uno scatto ferino, «perciò... non un fottuto minuto in più».

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