Illusio - Parte Seconda

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Il muro era freddo come il ghiaccio e non riuscivo ad appoggiarmi come volevo

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Il muro era freddo come il ghiaccio e non riuscivo ad appoggiarmi come volevo. Il pavimento era da sempre sconnesso, camminare si faceva difficile. Entrai nel ventre dell'oscurità, poi vidi mia moglie piegata sulla macchina da cucire: era nuda, completamente nuda, mentre i capelli avevano abbandonato la loro morbidezza mostrandosi secchi e stopposi, come fossero sporchi da settimane. Rimasi immobile battendo i denti dalla paura. Vedevo quegli spasmi scattanti e ossessivi con cui muoveva la stoffa sotto l'ago;  spesso, il suo indice senza ditale, si feriva creando una pozza di sangue sotto i suoi piedi vizzi. Cominciò a balbettare una canzone simile alla melodia del grammofono e io mi sentii mancare. Sembrava in preda a una possessione. Vidi nero. Chiusi gli occhi. Caddi a terra. 

La mattina seguente mi svegliai nel letto e feci per guardare di fianco a me: mia moglie non c'era. Quello che avevo visto ieri notte adesso sembrava un sogno, ma il rumore incessante proveniente dalla cantina mi rimbombava nei timpani rendendolo reale. Acciuffai la torcia, mi alzai lentamente, indossai la vestaglia e presi una mazza che tenevo sotto il letto. Nonostante fossi vecchio avrei potuto colpire qualcuno e fargli male, anche ucciderlo forse, ma sapevo che se avessi visto mia moglie non avrei avuto il coraggio.

Mentre la luce del Sole si affacciava dalle grate, avvicinandomi il rumore crebbe d'intensità, divenne insistente, battente; come un tamburo che non voleva fermarsi. Percepii chiaramente un mormorio, o un lamento, provenire dalla stanza degli oggetti di mia madre. Feci capolino e fissai inorridito il macchinario: su di esso vi era ricurva la mia metà, ancora nuda, con le mani sanguinolente in un enorme pozza di fluido vermiglio. Faceva avanti e indietro col busto mentre intonava la canzone del grammofono. Il tessuto che stava cucendo era ormai impregnato di sangue e non aveva aggiustato maniche rotte o rattoppato qualche strappo, ma aveva creato un grande lenzuolo con le mie vecchie camicie; un lenzuolo che si stava colorando di rosso. Mentre la illuminavo, l'ombra disumana veniva proiettata sulla parete dove si notavano le ossa, stranamente pronunciate, della sua spina dorsale ricurva.

«Che diavolo fai?» gridai. Se quella era una malattia avrei dovuto portarla immediatamente da un dottore.

Lei rimase di spalle mentre si muoveva avanti e indietro. Staccò il tessuto dall'ago della Singer e lo alzò per farmelo ammirare: «Ho preparato un lenzuolo. Un lenzuolo. Ho preparato un lenzuolo». Parole semplici e veloci, appena percettibili. «Un lenzuolo di ricordi. Ricordi. Un lenzuolo di ricordi!» Tese le braccia verso l'alto, ma ancora non mi guardò in faccia.

«Filomena, posa immediatamente quelle camicie e vieni qui: devo portarti da un dottore». Puntai la mazza verso di lei.

«Dottore. Medico. Dottore», le sue parole erano simili allo squittio dei ratti. «Malattia. Malato. Malattia» Riprese a muoversi avanti e indietro. «Ricordi camicie lenzuolo dottore malattia. Ricordi camicie lenzuolo dottore malattia».

Rimasi terrorizzato da quello che stavo vedendo, le sue mani grondanti di sangue mi traumatizzarono. Le illuminai con la torcia, notando che le unghie erano frantumate, bucate repentinamente dall'ago. Ma il suo corpo nudo era vizzo, troppo vizzo per essere il suo, e la voce era cosi stridula che sembrava un animale. Dondolò sullo sgabello ripetendo parole senza senso e io mi avvicinai per portarla in superficie: «Filomena basta! Vieni via!» La spinsi verso di me; quando si voltò vidi occhi e bocca cuciti, ma le parole che sentivo provenivano comunque dalle sue corde vocali.

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