Fluctus - Parte Prima

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Al porto era impossibile concentrarsi: le grida, il tintinnio delle campanelle dei pescherecci, i veicoli che sfrecciavano sulla strada; il movimento era incessante. Io ero un aspirante mozzo ancora a terra, giovane e senza esperienza, ma mio zio aveva una barca con cui soleva trasportare merci ed ero sicuro che mi avrebbe insegnato il mestiere.

Mi avvicinai alla banchina, scivolosa a causa della salsedine, che dopo qualche giorno assomigliava più a olio che a sale. Mentre avanzavo mi tenevo alle corde per non cadere, non capacitandomi di come i marinai si muovessero tranquillamente sul legno vischioso. Raggiunsi con difficoltà la passerella del barcobestia e vidi il fratello di mia madre poggiato al parapetto: «Zio!» esclamai gridando come gli altri. «Posso salire?» poggiai un piede sulla rampa.

«Vieni Augusto, fai attenzione a non cadere in acqua», le sue parole gutturali scatenarono una risata dell'equipaggio. Io salii.

Mio zio era un uomo anziano ma prestante, con un cappello di tela malconcio e una camicia che scopriva il petto irsuto. Aveva la pelle scottata da centinaia di viaggi in mare, mentre le braccia si imponevano possenti come l'albero di maestra dei galeoni. La pancia prominente e il mento sporgente ritraevano il profilo pronunciato, incorniciato da una barbetta che brillava di un grigio topo sotto la luce diurna.
Mentre faceva cenni bruschi all'equipaggio, improvvisamente gridò: «Chedad, porta quella cassa nella stiva invece di fumare la pipa, maledetto il giorno in cui ho permesso di portare il tabacco su questo rottame!»

Dondolando a destra e sinistra si avvicinò al mio corpo esile, non ancora provato dalla forza delle acque: «Allora, Augusto? Tua madre immagino abbia accettato». Mi diede un colpo sulla schiena e io tossii. «Ah, vedrai che fra qualche giorno sarai forte quanto me».

Lanciai un sorriso, mostrando l'accenno di baffi che stava crescendo attorno alle mie labbra. «Zio, mi sei mancato», confessai, stringendolo con una forza che non mi apparteneva. «La mamma non ha proprio accettato se devo essere sincero...» Cercai di dire la verità: «Però sono riuscito a liberarmene».

«Tua madre è una donna premurosa ma è ora che tu apra le porte all'oceano come tuo zio, tuo nonno prima di me, e il tuo bisnonno prima di lui. Siamo una generazione di mercanti marittimi e il mare è la nostra seconda casa».

«Lo spero, ma dovrò ambientarmi», non volevo essere troppo sicuro di me stesso, poiché lo stomaco stava già contorcendosi a causa del dondolio.

«Vieni, ti affido al mio pupillo», mi accompagnò a prua tenendomi per il colletto, dove un manipolo di uomini tendevano corde e spostavano casse. Devo ammettere che il barcobestia non era un rottame come mio zio diceva, tutt'altro: lungo almeno trentacinque metri, venne costruito con legno a fasciame e dava l'impressione di essere un galeone, con l'albero di trinchetto a prua, di maestra al centro e di mezzana a poppa; le vele, curate ossessivamente, erano dipinte di un grigio scuro che sfumava di rosso.
Fra i cumuli di casse sparse per il ponte, legate con del cordame intriso di pece, suonava martellante la campana, mentre la puzza di catrame trasudava dal legno, fluido con cui venne rivestito per l'impermeabilizzazione.

«Chedad!» urlò mio zio, «questo è mio nipote Augusto, insegnagli le basi e provvedi a presentargli gli altri, io devo andare a prendere la lista».

«Quale lista?» Chiesi innocentemente.

«La lista del nostro carico da portare in Africa».

Chedad mi diede una pacca sulla spalla e mi fece cenno di seguirlo. Era un ragazzo di trent'anni originario del  Marocco, con i capelli crespi di un castano scuro. Nonostante fosse magrolino si destreggiava impeccabilmente fra le travi sconnesse della nave. «Marinai!» esclamò con il suo accento. «Questo è Augusto, il nipote del capitano. Vorrebbe imparare il mestiere». Lo disse in modo talmente ironico da far ridere ogni energumeno dell'equipaggio. Si girò verso di me: «Questi sono i tuoi futuri compagni. Fra di loro troverai i gabbieri, vedette, sentinelle, marinai e anche un medico, da qualche parte. Poi passando del tempo sulla nave imparerai i nomi dei nostri ruoli, inutile che te li spieghi adesso».
Erano tutti uomini rozzi e possenti, vestiti con camicie e calzoni leggeri, dal petto villoso, i crani pressoché calvi, ma comunque maleodoranti.
Chedad continuò: «Io sono il timoniere, mentre Noah, quello lassù», mi indicò un marinaio appostato sulla coffa dell'albero centrale, «è la vedetta più esperta che abbiamo». Dall'alto mi fece un cenno con la mano callosa, mentre la sua corporatura elastica lo conduceva da una corda all'altra, muovendosi come uno scimpanzé.

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