A ritmo di danza

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Frrr, uno, due, tre, frrr, uno, due, tre, frrr. Eccola! 

Frrr, uno, due, tre...

Incorniciate da un azzurro senza ombre le foglie si staccavano lente, imprigionandole gli occhi in una rete di  fili ondulati. Il movimento  dall'alto verso il basso la cullava.

«Ma insomma, Norah, ti decidi a combinare qualcosa?»

La voce stridula della prof di italiano.

Sollevò il gomito appoggiato sul banco con fare indolente, il mento  sulla destra, la penna nella sinistra, sospesa.

Un sorriso stretto le increspò gli angoli della bocca.

Uno sguardo della prof la attraversò.

Ancora una volta, l'ultima. Se al tre ne cade un'altra succederà.

Frrr, uno, due, tre... quattro.

«Ehiii, Norah!»

Nooo, ti prego!  una volta sola...

Il naso increspato, tutte le efelidi concentrate in una macchia beige.

«Ehi, ma che cazzo stai facendo, Norah!».

Improvvisamente vide davanti ai suoi gli occhi azzurri di Lucrezia, di là dagli occhiali.

I fili erano scomparsi.

La chiamava quasi sdraiata sul banco, nascosta dietro il dizionario di italiano.

«Tra poco ritira!»

Guardò il foglio: solo il titolo. Tema in classe. 

Se ne era completamente dimenticata nella danza di foglie che cadevano dal platano davanti alla sua finestra.

Qualcuno era già in piedi per consegnare.

«Avete quindici minuti prima della campanella. Copiate e consegnate».

Meno peggio del previsto, si inventò alla svelta una colonna di discorsi.

Un cinque avrebbe dovuto prenderlo.

La campanella finalmente.

Il basco di lana morbida sui capelli, zaino in spalla, imboccò il corridoio.

«Guarda come si è messa quel cappello».

Un sussurro. Ma la voce  di Leo la raggiunse.

Fece per calarsi il basco sulla fronte, ma sentì sotto le dita le asperità delle cuciture della lana e il liscio del cartellino.

Mentre una vampa di calore le saliva alle orecchie rovesciò la stoffa e calzò il cappello. Fingendo di aver fretta Laura e Giulia la superarono e la spintonarono.

Inciampò e cadde giù per gli ultimi due gradini dell'uscita di scuola.

Tutto in terra, astuccio, cellulare.

«Serve aiuto?» Carlo, il bidello della portineria, aveva visto la scena.

« Non importa», rispose facendosi scudo con la mano.

Si sentì infiammare il viso mentre si avviava alla fermata con lo zaino mezzo aperto.

I sorrisetti di Oscar e Matilde le sfiorarono l'angolo dell'occhio, a destra, come lame di coltello. Leo e Andreas erano già fuori.

Lucrezia! Dove sei? Con lo sguardo implorante la inseguì, ma era già lontana, oltre l'angolo della piazza, in mezzo al gruppo di quelli che andavano in bici. Riconobbe il caschetto biondo con la falda lunga che le ricadeva sugli occhi.

Il primo anno di superiori l'aveva allontanata un po' da casa e la costringeva a prendere il bus.

Eccolo, il quarantatré.  Salì per prima appena si aprirono le porte e andò a sedersi in uno dei posti singoli, di lato, con lo zaino accanto a guisa di barriera.

Nessuno di classe sua prendeva il quarantatré.

Si sentiva le orecchie in fiamme.

Lo stomaco  serrato come un masso, lo sguardo fuori del finestrino, stava seduta in punta con le ginocchia strette, come se il sedile fosse bagnato. 

Quando il bus ebbe voltato l'angolo e l'edificio della scuola scomparve, sentì allentarsi la morsa.

Pochi minuti e sarebbe tornata ai bruni e rossi dei campi che delimitavano il suo quartiere. Appoggiò la schiena e si rilassò. C'era ancora un po' alla sua fermata.

FOGLIEWhere stories live. Discover now