Giù dal platano

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Lucrezia era l'unica amica delle medie. Erano state inseparabili fin dalla prima.

Avevano scelto la stessa scuola superiore anche se i genitori di Lucrezia l'estate precedente si erano trasferiti in un quartiere residenziale più vicino al centro città, in una casa più grande.

I suoi avevano fatto i soldi con il loro bar; anche se si trovava in un quartiere di periferia  era diventato un punto di ritrovo soprattutto per i giovani, che arrivavano a frotte per l'aperitivo. C'era un bel po' di roba da mangiare e costava poco. Praticamente una cena.

Dopo l'esame di terza media i suoi avevano regalato a Lucrezia una bella bicicletta nuova rossa fiammante.

«All'uscita ci separiamo, io vado con quelli in bici, tu col gruppo della fermata. Come si fa se no? Non  usciremo mai con loro se stiamo sempre appiccicate».

Si era formato subito un gruppetto in classe. Quelli che contano.

Laura, in uno dei banchi in fondo, una testa di lunghi capelli ricci tenuti da un gommino che sembrava dovesse cedere da un momento all'altro come alla forza di un'onda, portava jeans strettissimi strappati. Occhi castani, curve da modella.

Con lei aveva subito fatto amicizia Giulia, viso  rotondo con un paio di occhiali dalla montatura scura, che pendeva dalle sue labbra e si vestiva come lei. Pareva respirare a fatica dentro un paio di jeans decisamente troppo piccoli; invece aveva fiato per  rispondere per tutte e due alle domande dei prof.

Nella fila accanto, sempre in fondo, si erano messi Andreas e Leo.

Le parole sussurrate all'uscita le risuonarono nella mente. Deglutì e si irrigidì  sul sedile.

Ecco la sua fermata. Via Consorziale.

Fece l'ultimo pezzo a piedi, a grandi passi, buttando avanti le gambe magre un po' ossute che spuntavano da sotto un paio di jeans larghi.

Camminava lungo il bordo della strada calpestando i mucchietti di foglie secche, senza curarsi dei balzelli dello zaino mezzo aperto sulla schiena.

Con le mani a coppa si tirò su i capelli che le facevano sudare il collo sotto un sole ancora caldo.

Piegò a destra. Svoltò in via degli Eucalipti.

Il grande melograno sull'angolo aveva  un ramo  così carico che arrivava quasi alla sua altezza.

Lasciò la presa sui capelli che tornarono a cadere giù, come un'onda rossa sulle spalle, per allungare le dita a sfiorare un frutto. Tra poco sarebbe stato da cogliere, da una spaccatura si vedevano i chicchi rossi che esplodono come bolle e tingono le mani quando si mangia.

Camminava a naso in su. Le foglie sotto i piedi le rimandavano il loro allegro cric croc.

Un airone acquattato sul bordo della Farabola, il fosso dove iniziava il suo quartiere,  si alzò in volo disturbato dal rumore delle foglie calpestate.

Lo seguì fino a dove le linee morbide delle colline assorbivano in un grigio sfumato il  bruno dei campi.

Si sentì attraversare dall'aria particolarmente calda di quell'autunno. Il petto si allargò in un sospiro e lui ci si insinuò.

Andreas, gigante dal cappuccio e dagli occhi verdi, dall'andatura flessuosa. La mattina entrava attraversando l'aula per andare in fondo, al suo posto: lei lo sbirciava dal basso mentre si sfiorava il cappuccio al richiamo dei prof, come per toglierselo. Appena seduto se lo tirava di nuovo su. IL GGG l'aveva soprannominato. Il Grande Gigante Gentile. Gigante di sicuro, li superava tutti di un bel po' di centimetri.

Quella mattina le aveva lanciato uno sguardo passandole accanto, all'ingresso. A ripensarci si sentì come se una colonna di formiche le attraversasse la pancia. Aveva fatto finta di nulla, pensò allungando il passo. Cosa le importava, in fondo? Fece un saltello per schiacciare un mucchietto di foglie e farle scricchiolare.

Guardò oltre la Farabola: sulla riva opposta c'era un prato verdissimo come i suoi occhi. Il posto giusto per andarsi a sdraiare e godersi la natura dal sotto in su. Doveva  trovare un guado.

Maledetto cappello. Se lo ritrovò tra le mani e il cuore le si strinse di nuovo.

Sul pullman in un moto di nausea li aveva immaginati ancora là, all'uscita, che spettacolo! Chissà che avranno detto!

Allungò il passo verso il grande platano fuori del cancello di casa, il mio platano.

Tu capisci.

Mentre entrava una foglia si staccò. La guardò atterrare: una fitta la strinse di nuovo.

Chissà che risate si saranno fatti.

E Lucrezia non era tornata indietro a darle una mano.

Dette un calcio al cancello che si aprì del tutto, entrò.

Abbandonò in terra lo zaino e le scarpe nell'unica stanza che faceva da soggiorno e tinello allo stesso tempo, deserta.

Bocconi sul letto, la testa dentro il mobiletto vintage a fiori azzurri, prese una testina bianca di marmo regalo della zia Giuliana dal suo viaggio a Petra.

Evvai! musica, ballare! La sua passione, sarebbe diventata una ballerina fortissima.

Inserì il Cd  nel lettore e partirono le note di «Baby One More Time».

Flessuosa si mise a girare per la stanza, la testa stretta nella mano destra, wow, mi vedesse ora, una rovesciata fin quasi a toccare terra, la destra allungata, lo sguardo dal sotto in su verso quelle occhiaie bianche, magari fossero i suoi occhi verdi, balla con me, forza, neanche Britney Spears col suo esercito di ballerini.

FOGLIEWhere stories live. Discover now