«E Berta filava»

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«Ehi, Norah! Ci sei?»

Sua madre.

«Le tue scarpe sono la prima cosa che si incontra appena si entra!»

Già, non le vedeva proprio lei.

La testina finì sopra una foglia secca e contorta accanto a una di quelle sfere di vetro che fanno la neve se le agiti.

Nessun ordine lì dentro. Richiuse il mobile in fretta e furia.

«Dai che è tardi, vieni a tavola».

Si bloccò sulla porta del tinello. L'odore del minestrone riscaldato le arrivò subito alla gola: d'istinto si avvicinò alla finestra e guardò fuori.

Uno sguardo implorante verso il suo platano, parlami ti prego, se lo sarà dimenticato?

«Potresti anche metterli tu i piatti qualche volta, eh!» la rimproverò sua madre.

Al tavolo in mezzo alla stanza, troppo grande per loro due sole, Norah giocherellava col cucchiaio.  La fame le era passata.

«Com'è andata stamani?»

«Niente male» mentì abbassando gli occhi.

Sua madre scosse la testa.

«Se ci fosse tuo padre sarebbe un'altra storia, te lo dico io.»

Norah lo conosceva quello sguardo.

Si sentiva infilzare, come allo spiedo. Ma non le veniva proprio nulla da dire.

Posò il cucchiaio e si versò un po' d'acqua.

Con suo padre era stato diverso. La faceva giocare quando era a casa.

Come quella volta che l'aveva fatta salire sul furgone tirato a lucido, prima di partire per uno dei suoi tragitti.

Si era seduta al posto di guida, le mani sul volante. Aveva acceso la radio e erano partite le note di una vecchia canzone di Rino Gaetano,  «Berta filava». Uno dei cantanti preferiti di suo padre.




Non toccava neanche i pedali, era una bambina di seconda media.

«Mi porti con te qualche volta?»

«Tu devi andare a scuola, Norah. E poi vuoi lasciare la mamma da sola? Torno presto, lo sai».

All'inizio funzionava.

«Tutti oggi hanno bisogno di spedire qualcosa a qualcuno lontano. Non come nella bottega, dove non si lavora più. La gente compra tutto già fatto», ripeteva.

Si era messo a lavorare per una ditta, faceva lo spedizioniere.

Con la crisi aveva dovuto chiudere la vecchia bottega di falegname che aveva ereditato dal padre.

Norah sentiva ancora nel naso l'amarognolo del trasparente dato al legno prima della verniciatura.

«Posso azionare la leva?»

Qualche volta che erano soli l'aveva fatta provare, le metteva un paio di guanti da lavoro che le stavano enormi.

Il ronzio del tornio da legno si diffondeva in tutta la bottega come una melodia. Nel sole si vedeva il pulviscolo che fluttuava, proprio come adesso, nella lama di luce che tagliava in due la stanza, illuminando il tavolo in mezzo ai coni d'ombra, negli angoli.

L'odore del minestrone stava sospeso a mezz'aria, come qualcuno fermo sulla soglia che non se ne vuole andare.

Sentì un peso sullo stomaco. Le succedeva spesso a quell'ora.

Era stato subito dopo pranzo, un giorno di gennaio pieno di sole, due anni prima.

Lui era già sulla porta ed era tornato indietro e le aveva dato un bacio come al solito. Poi  l'aveva abbracciata stretta.

«Quando torna?» aveva chiesto alla madre dopo che era uscito.

«Non lo so», le aveva risposto lei senza guardarla, di spalle, lo sguardo fuori della finestra.

«Guarda di finire che non hai mangiato nulla», fece sua madre mentre si alzava da tavola, portando via il suo piatto. Col cucchiaio in mano, Norah si  arricciava i capelli che spuntavano dal ciuffo.

Duravano poco a tavola loro due, come se ci fosse sempre fretta di fare qualcos'altro.

Appena sua madre le girò le spalle, lei sgattaiolò in camera senza badare allo schermo del cellulare che si era illuminato.

«E non lasciare il tuo piatto sulla tavola, eh».

Sul letto, sguardo al soffitto, le apparvero quegli occhi verde bosco posati su di lei mentre usciva dalla classe.

Un'onda di calore al pensiero le salì dal pube fino al collo, le bagnò le ascelle.

«Guarda come si è messa quel cappello!»

Non ne imbroccava una. Ci mancava il cappello. Sentì una fitta dolorosa mentre  un sudore freddo la gelò.

Lo schermo del cellulare continuava a illuminarsi, abbandonato sullo zaino mezzo aperto.

«Mi dispiace per stamani. Ehi, Norah, mi senti? Pronto?»

La voce la raggiunse da lontano, lo aveva preso senza neppure accorgersene. Lucrezia.

«Guarda che secondo me gli piaci, lo sai che è uno che se la tira, no? Che potevo fare? Lì, in mezzo a tutti...non potevo mica tornare indietro! Non volevo che mi prendesse per il tuo angelo custode, sei una tosta...oh ma ci sei? Norah??»

Il cellulare buttato sul letto continuava. Niente da fare. Norah non c'era già più.

Lo sguardo al platano fuori. Lo sapevo, tu mi avevi avvertito. uno, due, tre...quattro.

«Devo andare, si comincia a preparare per il banchetto di sabato, va bene?» La voce di sua madre. Lei annuì. La porta si richiuse.

FOGLIEWhere stories live. Discover now