Chapter 4

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CHAPTER FOUR

RAY

Non capisco subito cosa succede dopo. In realtà, non ho affatto il tempo per pensarci, non ho nemmeno il tempo per girarmi verso i miei compagni e chiedere cosa diavolo stia succedendo, e quando finalmente lo faccio è ormai troppo tardi.

Non ci sono più.

Sento il panico afferrarmi per la gola e mi impongo di rimanere calmo. Va tutto bene. Non possono essere lontani. Devo trovarli, li troverò.

-Mikey? Gerard? Frank!

Nessuna risposta. Attorno a me c'è il silenzio più assoluto.

Ripercorro mentalmente cosa è successo negli ultimi minuti. Dopo che la voce è scomparsa, ci siamo avviati verso quella dannata porta spalancata. Oltre di essa però, c'era buio pesto, e abbiamo cercato di orientarci allungando a tentoni le mani. L'ultima cosa che ho sentito è stato Gerard che chiamava il mio nome.

E poi questo.

Un attimo prima ero con loro, un attimo dopo sono qui.

Mi guardo intorno. Sono in un lungo corridoio dalle pareti bianche e il pavimento altrettanto candido. Il tutto è così asettico e accecante che mi ferisce quasi gli occhi, e quando guardo davanti a me vedo che il corridoio si estende quasi all'infinito.

A fiancheggiare il corridoio, lo noto soltanto ora, ci sono decine e decine di porte chiuse sia sulla parete di destra che su quella di sinistra, dello stesso bianco abbagliante di muri e pavimento.

Devo cercare di calmarmi, o non andrò da nessuna parte. Sento le mani tremarmi e me le passo tra i ricci, sospirando e riflettendo.

Queste porte. So che sono una trappola, o qualcosa del genere. Quello stronzo ci sta mettendo alla prova e io ho paura. Ho fottutamente paura e non so cosa aspettarmi.

Eppure, mi avvio verso la prima sulla mia sinistra.

Poso la mano sulla maniglia e la giro piano, lentamente, chiudendo gli occhi e facendo un profondo respiro. Ed apro la porta.

Quando sono dentro, mi aspetto quasi che una trappola mortale mi affetti il braccio o qualcosa del genere, ma non succede assolutamente nulla.

Apro gli occhi, e l'ambiente attorno a me, completamente diverso dal corridoio di poco fa, mi colpisce come un pugno in un occhio.

Sono in una sala di registrazione. Un ventilatore a pale gira pigramente sul soffitto, rinfrescando un po' la stanza nella quale, in effetti, fa piuttosto caldo.

C'è un divanetto addossato contro il muro di destra, e davanti ad esso un tavolino con delle bottiglie di birra vuote o semivuote, lattine di coca cola schiacciate e briciole di vari snacks. Dall'altro lato della stanza ci sono gli amplificatori e le casse e tutti i vari strumenti di registrazione, assieme ad un'asta del microfono e ad una batteria che mi sembra vagamente familiare.

In realtà, tutto in questa stanza mi sembra vagamente familiare.

Ritorno con lo sguardo sul divanetto, e noto che ci sono due chitarre elettriche ed un basso appoggiati contro la parete accanto ad esso. Una delle due chitarre è bianca, con una scritta brillantinata sopra: "Pansy". Il basso lo riconosco, e altroché se riconosco l'altra chitarra. L'ho suonata io stesso, con le mie mani, per anni.

Non ci posso credere. Continuo a sbattere le palpebre, scioccato, cercando di capire dove diavolo mi trovi. La porta è ancora dietro di me, e posso uscirne in qualsiasi momento, ma per un qualche motivo mi avvicino invece alla mia chitarra, accarezzandola delicatamente con le dita, sentendo le corde vibrare sotto il mio tocco familiare.

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