1 - Birmingham

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Mentre il sole violento di Singapore illuminava la villa lussuosa di Jack Venom, Ducan Bass, a braccia conserte e con sguardo cupo, s'appoggiava al tavolo di fronte al padrone di casa.

«Signore, è sicuro di volere proprio l'Arena di Birmingham? Anita non lo permetterà». Ducan alzò lo sguardo vitreo e duro su quello rilassato dell'uomo.

«Compare mio, se mi chiedi se sono sicuro vuol dire che dopo anni al mio fianco non hai ancora ben chiaro come lavoro. Ciò che esce dalla mia bocca è legge», il signor Venom guardò Ducan; piegò il capo e alzò il calice con un sorriso ch'emanava superiorità, tuttavia, seppur lui non se n'era accorto, il movimento eccitato macchiò di champagne la camicia bianca che indossava.

Gli occhi di Ducan scrutavano severi quel corpo scarno, segnato dall'età, seguivano perfino quello schizzo innocente sul candido indumento.

«Ci siamo capiti?» Jack, severo e intimidatorio, si alzò dalla sedia con ancora il calice in mano, sfoggiando il pantalone elegante, scuro e costoso che indossava. Ducan lo osservava, era inevitabile, tuttavia il suo sguardo era impassibile. Sfilò, quindi, gli occhiali da sole dal collo della maglietta e li indossò.

Ducan non era interessato alle parole di quell'uomo che sputavano solo rimprovero, non era interessato alla cifra imponente che aveva speso per avere quei vestiti, quella villa, quel tutto. Quindi annuì, semplicemente, con un cenno lieve del capo.

Sapeva bene che una buona parte del guadagno di Venom non proveniva in maniera legale, grazie ai Giochi. Un uomo avido, per Ducan, era una preda facile; per questo era stato semplice scoprire che il vecchio aveva gestito altri lavori che gli avevano permesso di navigare nel lusso. Ducan non era il tipo d'uomo che si lasciava fottere. Aveva intenzione di sapere tutto su Jack Venom. Il tempo gli avrebbe fatto da consigliere.

Ducan Bass se ne stava seduto sereno, lo osservava, ascoltava le sue parole arroganti e quando c'era da parlare lo faceva. Era tutto molto tranquillo a villa Venom.

Il padrone di casa, con sguardo torvo ma con le spalle più rilassate, si stava sedendo sotto l'attento sguardo di Ducan, il quale si era portato una mano dietro la schiena per prendere la pistola e intrattenersi. La cosa che fece sorridere il giovane con entusiasmo furono gli uomini posti a ogni angolo della casa che si misero in posizione pronti per sparare. Voltò il capo al suono degli stivali dei soldati muoversi in sincrono, li osservò da capo a piedi, poi, con il solito sorrisetto, scosse il capo.

«Ha la sicura, dolcezze. Sto solo facendo passare il tempo», Ducan li rassicurò, divertito, mentre si mise scomposto sulla sedia e fece ruotare la pistola sul dito dal lato del grilletto.

«Riposo», ordinò Venom, così gli uomini depositarono le armi.

Ducan, mentre batté tre volte il telaio del calcio della pistola sul tavolo in bambù, scrutò l'uomo in divisa nera con il mitra tra le mani, posizionato all'angolo sinistro della villa. Lo sguardo diventò di colpo pensieroso. Non più in vena di giochetti, decise di riposare la Beretta 92 calibro 9 tra il pantalone e la schiena. Venom, approvando quel gesto, annuì. Ducan, tuttavia, si limitò a guardarlo imperscrutabile.

Il vecchio Jack conosceva l'uomo che aveva davanti, ma non abbastanza; così come non sapeva quanto potesse essere realmente dannoso e pericoloso averlo al suo fianco. Non si trattava degli abiti scuri che lo rendevano tale, né tanto meno della pistola e del coltello a serramanico negli stivali che avrebbe potuto prendere in mezzo secondo, se lo desiderava; no, si trattava della sua dannata follia silenziosa.

Eppure Venom, beato, si fidava, lo trattava quasi come un suo pari, seppur fosse il suo Giocatore migliore: punto a favore per Ducan.

Il giovane, voltò il viso dai lineamenti marcati verso l'immenso salotto, dove tutte le grandi finestre dorate erano aperte e da dove l'aria afosa di Singapore entrava, appiccicandosi alla sua pelle ambrata. Era il panorama a rendere il clima più sopportabile, per Ducan.

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