8 - Quei tre

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L'entrata dell'Arena si palesò, in tutta la sua immensità, di fronte ai due che, emozionati, si scambiarono un'occhiata carica di brio.

«Aspetta che ti dia il via libera, dammi il tuo cellulare prima». Anita si voltò con il busto verso Ducan, porgendogli il palmo della mano.

«A cosa ti serve?»

«Non fare domande, dammelo e basta», e lui in un sospiro eseguì: tirò fuori il dispositivo dalla tasca dei pantaloni e lo mise sulla mano della donna, facendo attenzione a non sfiorarle la pelle. Lei notò quella premura, ma non lo diede a vedere, così, imperturbabile, scese dall'auto.

Ducan osservava i lunghi capelli della corvina cadere fino ai fianchi, le gambe che si incrociavano e lei che si metteva una mano in tasca, mentre si portava il telefono all'orecchio e alzava il capo, puntandolo da qualche parte in alto a destra.

«Bob, sono Anita», disse, quando notò che l'uomo aveva preso la chiamata.

«Perché chiami da questo numero?» Chiese il cinquantenne, sospettoso.

«Bob, non è importante perché e da quale numero io stia chiamando. È importante sapere che io sto chiamando la base. Hai capito, no?»

«Certo signorina, mi scusi».

«No, Bob, no. Dammi del tu comunque, anche in questi casi. Non creiamo tensioni inutili. Ho chiamato per dirti di aprire il cancello primario. Sto entrando in Arena con una persona, abbiamo anche una macchina. Non preoccuparti di nulla, è tutto sotto controllo, Bob».

«Va bene Anita, come desideri».

«Richiamo appena usciamo, puoi prenderti una pausa. Ci penso io qui», gli disse, serena, mentre si voltò un attimo a osservare Ducan in macchina, che alzò le mani come a dire: "Ma che diavolo stai facendo?", ma lei lo ignorò e si girò di nuovo.

«Grazie Anita, scusami ancora per l'invadenza».

«Non sono necessarie le scuse, Bob». Anita accennò un sorriso e chiuse la chiamata, mentre il cancello si aprì. Lei, a passi sicuri, entrò e si mise di lato, osservando Ducan che, lentamente, incuriosito ed emozionato, fece il suo ingresso, con la sua auto, nell'Arena di Anita, nella quale si svolgeranno i prossimi Giochi.

Una volta che la Mercedes fu dentro, Anita si accomodò in macchina e gli porse il telefono.

«Grazie».

«Non c'è di che», sorrise, confuso, lui.

«Vuoi dare un'occhiata?» Chiese Anita.

«Qui puoi correre, te lo consento, ma fai attenzione: stiamo infrangendo una delle mie regole, ciò significa che se ti fai male te la vedi tu, intesi?»

«Nessuno si farà male, Anita», sussurrò, mentre ammirava la grandezza di quel luogo adibito per moto e macchine. L'Arena era molto più grande rispetto a quelle del padre di Anita. Ducan suppose che ogni Arena avesse circa quelle misure. In quel momento capì, forse, perché Venom voleva Birmingham.

Camminava lentamente dentro la pista, d'un tratto però guardò Anita con occhi furbi.

«Metti la cintura e tieniti pronta».

«Lo sono già, Ducan», sussurrò, mentre il click della cintura scattò.

«Capisci perché mi piaci?» Ducan non attese e fece un testa coda in quello spiazzale, per poi correre, superare i cento, frenare in curva perdendo quasi totalmente trazione nelle ruote posteriori, che scivolarono nella direzione opposta a quella in cui si muovevano le ruote anteriori, e corse ancora, mentre i capelli di Anita svolazzavano addirittura fuori dal finestrino, ma lei con il sorriso in volto e schiacciata al sedile, non se ne curava. Si divertiva e basta.

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