2 - Limoncello e supposizioni

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Alle due di notte, Ducan arrivò a Birmingham. Con il borsone tra le mani, gli occhi stanchi e il viso stravolto dal viaggio, osservò, mentre esalava un sospiro lieto, il grande edificio che si ereggeva in cielo. Era l'Earthly Paradise, il terzo palazzo più grande di Birmingham, e in una di quelle grandi finestre, che dal basso si notavano, c'era casa sua.

Aprì le porte in vetro dell'edificio, che gli consentirono di entrare nell'atrio elegante, adornato con rifiniture in oro e quarzo bianco. Alla sua destra lo accolse la gabbia vuota del portinaio, dal quale proveniva il profumo di cocco che si diffondeva nell'ambiente. Si beò per un istante di quell'odore familiare, che gli evocava il ricordo di giorni e notti turbolenti e a tratti quieti. Sorrise al passato, mentre l'ascensore, che aveva chiamato, arrivò. Le porte si chiusero e il mezzo lo condusse fino al penultimo piano. Una volta arrivato, inserì la chiave nella serratura del suo appartamento, poi girò il pomello in marmo bianco e, finalmente, casa sua lo accolse nel silenzio, nel buio, nella pace, con i mobili ricoperti da tessuti e nylon per proteggerli dalla polvere.

Accompagnò piano la porta allo stipite, e insieme al borsone cadde a terra in ginocchio. Chiuse gli occhi e respirò a polmoni pieni. I sentimenti lo assalirono e il viso provato si contrasse; non sapeva se fosse per la felicità di essere tornato, per l'inferno che provava o per il sollievo di essere a un passo da lei. Non lo sapeva. Tuttavia, con fatica, si mise in piedi, lasciò il borsone a terra e accese la luce. Mentre andava all'angolo del salotto, in cui era montato una sorta di bar con bancone, retro di esso e sgabelli in pelle nera, si scompigliava i capelli neri, stanco. Diede le spalle al ripiano e dalla parete piena di bottiglie impolverate ne sfilò una di limoncello. Aprì, quindi, il rubinetto del lavabo e lavò via lo sporco, poi svitò il tappo, ma si rese conto che anche i bicchieri erano pregni di polvere, così ne prese uno e lo sciacquò, per poi versare finalmente un po' di alcol e assaporarlo. Se lo meritava, quel limoncello, dopotutto.

Posò il bicchiere vuoto sul bancone e si avvicinò alla grande vetrata, da cui si vedevano solo i tanti palazzi e la strada di sotto.

Si domandava cosa stesse facendo Anita. Magari stava dormendo o magari era chissà dove, tra le strade di Birmingham, incurante della sua presenza nella sua Arena.

Invece lei era seduta al tavolo in salotto, in compagnia di Hunter  Wilson che, accomodato in maniera scomposta all'angolo dello stesso, la osservava tenere il volto basso sui fogli sparsi sul ripiano, mentre muoveva frenetica la penna che teneva tra l'indice e il medio. La corvina alzò lo sguardo, tuttavia notò quello di lui già posato sulla sua figura.

«Cosa?» Anita sospirò e, svogliata, allungò il braccio destro sui contratti, poggiò il gomito sinistro sul foglio che stava compilando e con la mano si sostenne il capo.

«Posa quei documenti, Anita. Ti ho già detto che non è una buona idea organizzare i Giochi, questa settimana», Hunter si avvicinò con il busto al tavolo in vetro, posando le braccia incrociate su di esso.

«Cosa mi suggerisci? Di non lavorare per delle supposizioni? Ci prendiamo quello che dobbiamo prenderci. Io non mi tiro indietro. A nulla. Chiaro?» I suoi occhi erano penetranti, insistenti, non lasciavano modo di ribattere. Comandava lei. Il giovane annuì, aveva già detto abbastanza. Scomposto, tornò a osservare Anita che, severa in viso, aveva ripreso quei fogli per le mani. Firmava e compilava vari documenti legali riguardanti i Giochi della settimana entrante, che si sarebbero svolti in Arena. Erano obblighi a cui non poteva rinunciare, per la sicurezza e la tutela di tutti. Tuttavia, la giovane, frustrata, sentì che la loro chiacchierata non era ancora terminata, così posò di nuovo la penna, raccolse in ordine la documentazione, la posò in cassaforte e andò in camera a prendere la pistola, lì si cambiò e, velocemente, indossò un pantalone attillato nero con varie tasche ampie lungo le cosce.

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