12 - Una chiamata da Singapore

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Il giorno successivo, Ducan venne svegliato alle cinque del mattino da una chiamata proveniente da Singapore.

Confuso, portò una mano sugli occhi stropicciandoli, tolse la coperta, scoprendo il suo petto nudo, si mise a sedere e prese, dal comodino, il cellulare contenete la scheda che usava in Asia.

«Pronto?» Rispose, con voce rauca.

«Bass, sono David. Non appena te ne sei andato da Singapore, Venom ha richiesto l'annullamento dei Giochi di Anita al Comitato Internazionale dei Giochi, con l'accusa di non rispettare le normative vigenti per la sicurezza dei Giocatori. I Presidenti hanno accettato». L'uomo al telefono pronunciò quelle parole in maniera svogliata, come se fosse solito riferire quel tipo di informazione. Eppure, in dieci anni, mai nessuno della famiglia Venom aveva fatto una cosa del genere.

Ducan si alzò di scatto dal letto e strinse i pugni.

«Di che diavolo parli, David? Com'è possibile che abbiano deliberato in un giorno?» Ducan guardò fuori dalla finestra. Anche quel di il cielo era cupo.

«Bass, ti sto riferendo delle informazioni in via confidenziale, non so altro». Disse l'uomo. Ducan, invece, sbuffò.

«C'è una cosa che puoi fare, però».

«Sentiamo».

«Abbiamo trovato un virus nel sistema informatico di Singapore. Pensiamo ci sia di mezzo Hunter Wilson».

«Quel figlio di puttana», sussurrò Ducan in un sorriso soddisfatto, mentre scuoteva il capo. Almeno Hunter stava facendo una cosa giusta, per lei.

«Puoi ben dirlo!» Esclamò l'uomo dall'altro lato del telefono, a mo' di disapprovazione. Di certo i due non avevano la stessa veduta, ma questo David non lo sapeva.

«Quello che serve a Venom è che tu riferisca ad Anita quello che ti ho appena detto. Abbiamo bisogno di sapere quanto Wilson sa. Venom conta su di te, può farlo ancora?»

Seguì un breve silenzio tra i due. Ducan parve riflettere.

«Farò quel che devo». Chiuse la chiamata. Poi, sconsolato, si sedette a peso morto sul letto, mentre teneva ancora il cellulare stretto tra le mani e gli occhi persi nel vuoto, pensando a cosa fosse giusto fare, a come fosse meglio agire.

Ma prima di risolvere quel problema aveva bisogno di dormire ancora un po': si sentiva stremato, giacché era ancora in jet-lag.

"Non appena il sole sarà alto nel cielo parlerò con Anita". Si ripromise.

Frustrato, si portò di nuovo una mano sul viso, poi sospirò e tornò sotto il piumone caldo. Poggiò la guancia sul cuscino morbido, cercando di prender sonno, ma quelle ultime parole pronunciate da David gli rimbombavano in testa, e un'infinità di ipotesi, di quello che sarebbe potuto accadere, si fecero largo tra i suoi pensieri. Non poteva rimandare.

Era un'informazione troppo importante, non poteva perdere tempo. Anita non poteva perdere tempo.

Di nuovo si scoprì e, con in dosso solo un pantalone nero di tuta, si allontanò dalla sua stanza per entrare in salotto. Si sedette su uno sgabello in pelle nera, all'angolo bar, con il busto rivolto agli edifici, mentre digitava il numero di Anita.

«È proprio una tua prerogativa svegliarmi prima ancora che sole sorga, eh?» Rispose la corvina assonnata.

«Non ho tempo per questo. Ho ricevuto una chiamata da Singapore».

«E mi svegli per una chiamata, Ducan? Torna a dormire, è presto. Ne parliamo tra qualche ora al Great Purgatory». Anita fece per staccare, ma Ducan, spazientito, si alzò dallo sgabello.

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