19 - Infiammabile

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«Una cazzo di notte interminabile è questa. Interminabile», sbuffò, mentre Ducan guidava.

«Risolviamo il Gioco di Cuori Anita, togliamoci di mezzo questa bastardata e andiamo a dormire, al resto ci pensiamo al risveglio».
   
«Non sono in vena di risolvere il Gioco. Se ne parla domani».
   
«Non credo che ti sia chiara la situazione. La ricompensa per il Gioco di Cuori di questa notte è più alta del solito e io ho bisogno di quei soldi, quindi facciamola finita il prima possibile».
   
«Dovrai aspettare, Ducan. Il prima possibile è domani».
   
«E va bene, aspettiamo».
   
Ducan le sorrise, mentre accelerava sulla strada di ritorno, lei lo osservava e puntava i suoi occhi smaniosi sulla sua figura. La mascella di Ducan risaltava, così come le labbra rilassate in un ghigno di piacere. Erano movimenti sicuri, i suoi, mentre avanzava la marcia e premeva il pedale dell'acceleratore. Anita s'inebriò di quella vista, desiderando di essere altro, di non vivere quella vita, così che lui potesse essere suo. Ma la sua vita era quella che era e lui suo mai lo sarebbe stato. Tuttavia, forse, doveva ringraziare quella vita bastarda, fatta di sacrifici, per avere accanto lui. Ma no, non l'avrebbe ringraziata, ringraziò ironicamente se stessa per aver fatto delle scelte atroci in passato che l'avevano portata a quell'esatto momento.
   
Quello era ciò che aveva seminato per strada: benzina, e adesso poteva solo che darle fuoco con la sua persona, perché di lavarla via non se ne parlava. Era impossibile. Non appena si fosse avvicinata, quella strada sarebbe bruciata: lei era quel fuoco che non poteva essere ostacolato, e allora, con la sua figura, bruciava ciò che lei aveva lasciato lungo il suo cammino. Era una creatura infiammabile, lei.
   
"Ti prendi quello he hai seminato, Anita", si disse. "Arrangiati, adesso", si rimproverò.
    Però un po' di malinconia e rabbia venne alleviata da lui che le era accanto, che la desiderava, che la sfidava, che la provocava, che l'aveva compresa e che la stava accompagnando a casa.
   
Ducan lo sentì che le emozioni di Anita erano un disastro, che lei era in quel limbo spaventoso di sentimenti, lo sentì, lo percepì nelle ossa, poiché inquietarono anche lui, nonostante non provasse ciò che stava sentendo lei.
   
«Hey», sussurrò lanciandole un'occhiata veloce.
   
«Si?» Parve riprendersi e accennò un sorriso. "Se ne era accorto", pensò. Si mise composta e voltò il capo verso Ducan. Si era ritrovata a guardare fuori dal finestrino senza rendersene conto.
   
Lui la osservò di nuovo per assicurarsi fosse tutto okay. Apparentemente lo era. Era la solita Anita di sempre. Quella fuori di testa e triste.
   
«Per la moto, vedrai che troveremo chi è stato».
   
«Non hai bisogno di preoccuparti di questo, me la vedo io. Preoccupati solo di rispondere quando chiamo: da oggi in poi mi servirà qualcuno che mi porterà ovunque io abbia bisogno di andare». Anita lo guardò con occhi che avrebbero fatto ammattire chiunque, tanto erano calamitosi. L'idea piacque a entrambi, lo sapeva. Ducan sorrise e scosse la testa divertito.
   
«Sbaglio o mi hai appena reclutato come tuo autista personale?»
   
«Se l'idea non ti piace puoi sempre lasciarmi le chiavi di una delle tue macchine, sarebbe la cosa migliore da fare, non trovi?» Anita lo provocò in un sorriso di chi sapeva che aveva già ciò che voleva, ma giocare era nella sua natura e la divertiva, non poteva farne a meno.
   
«Decisamente non la cosa migliore, Anita». La sua voce era roca, mentre pronunciava quelle parole, tanto che lei distolse lo sguardo e si morse il labbro per trattenere un sorriso, che tentò di colorarle il viso. Ducan la guardò di sfuggita, la trovava stupenda, genuina con le guance di poco arrossate e gli occhi lucenti di gioia.
   
«Proprio la risposta che mi aspettavo, Ducan».
Si trovavano sul ciglio della strada, di fronte l'entrata del palazzo in cui viveva Anita.
   
«Chiamami nel tardo pomeriggio per il Gioco, per qualsiasi altra cosa puoi chiamarmi quando vuoi». Lui la guardò, osservò i lunghi capelli neri e il viso pallido, gli occhi però, oh gli occhi catturarono più di tutto la sua attenzione. Sembravano a tratti disperati e lei non tentò di nasconderlo. Qualcosa la turbava, ma cosa? Non lo sapeva neanche lei.
   
«Non avrò bisogno di te domani se non per il Gioco, mi farò sentire io». Gli occhi gelati cercarono quelli caldi di Ducan. Li trovarono e rimasero lì, dento i suoi, a bearsi del calore che gli donavano; loro che erano circondati da aria fredda, tremarono, sussultarono, ma poi per disgrazia e per dovere vennero coperti da pallide palpebre. Basta così. Era stato intenso, era stato bisognoso quel tuffo in un posto caldo, tuttavia era tempo di terminare quel legame.
   
«Va bene. A domani, allora».
   
«A domani, Ducan». La osservò uscire dalla macchina, i suoi capelli svolazzarono e lei sentì freddo, mentre si avvicinava alla vetrata che le permise di entrare nell'edificio. Si voltò. Lui era ancora lì, fermo a guardarla. Anita gli regalò un sorriso, lui portò due dita alla testa e poi le allontanò: la salutò così. Lei si voltò e si avviò alle scale per salirle, sentì il rombo del motore allontanarsi e sospirò. Era sola di nuovo, era senza di lui di nuovo. Ma andava bene così. Erano le quattro del mattino in fondo, era anche ora di trovare un po' di tranquillità e riposare. Lo avrebbe voluto tanto. Eppure pareva non arrivare ancora il suo tempo, perché suonò il campanello e sembrò che non ci fosse nessuno. Lo suonò insistentemente, magari Hunter stava dormendo o magari non c'era e lei era rimasta nell'androne, chiusa fuori casa propria.
   
«Non è di certo la miglior notte della mia vita, neanche la peggiore dopotutto». Sospirò e si sedette sul pavimento con la schiena poggiata al muro. Avrebbe aspettato lì quel bastardo.
   
Anita involontariamente chiuse gli occhi, stremata crollò tra le braccia di ciò che per lei assomigliava di più alla morte: l'oscura via dei suoi pensieri la condussero in un mondo crudele fatto di incubi e rabbia. Crollò lì sul pavimento, con il viso contratto, stanco e con il respiro affannato di chi in quel mondo di sogni oscuri era appena entrato. Il sonno di Anita non era pesante, stava riposando in dormiveglia, perché sapeva che doveva rimanere vigile. Si era lasciata cadere, ma con prudenza e furbizia, senza abbassare la guardia. Tuttavia quel sonno leggero era popolato da in incubo in cui lei era la protagonista, insieme a un uomo. Lei era cattiva. L'avevano fatta diventare tale. Adesso era giusto così. Adesso andava bene così. Era così che doveva essere. Le dispiaceva e allo stesso tempo non gliene fregava niente. Loro avevano fatto di peggio. Lui aveva fatto di peggio. Adesso si sarebbero presi la sua cattiveria. Ma nel suo sogno la sua cattiveria non era abbastanza, perché lui con lei era più bastardo: la spezzò con le parole e lei urlò disperata. Lui era il primo diavolo, la fece soffrire più di quanto lei riusciva a fare con lui. Era sua figlia. Il primo diavolo aveva creato un angelo caduto, spezzato, cattivo, seppur generoso. Lei era la figlia del diavolo, l'angelo caduto che tutti temevano.
   
Le lacrime scendevano nel sogno, era un sogno brutto, disperato: raffigurava la realtà, era terrificante. Le lacrime non si limitarono a uscire solo nel mondo onirico, cadevano, bagnavano e battezzavano anche il mondo terreno. Erano lacrime d'oro fuso. Bruciavano sulla pelle. I suoi singhiozzi riecheggiavano nelle scale tanto da poter donare sentimenti strazianti a chi si fosse trovato, per caso, ad ascoltarli.

 I suoi singhiozzi riecheggiavano nelle scale tanto da poter donare sentimenti strazianti a chi si fosse trovato, per caso, ad ascoltarli

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Hunter tirò fuori il telefono dalla tasca dei pantaloni e rispose alla chiamata, mentre saliva le scale.
   
«Cosa vuoi ancora? Ci siamo visti fino a venti minuti fa», disse infastidito.
   
«Il capo ha insistito nel fare questa telefonata». Non appena l'uomo terminò la frase, Hunter ricevette un messaggio da un numero sconosciuto. Si fermò sulle scale e aprì quel messaggio per leggerlo, ma non c'era nessun testo, solo una foto. Era Anita sdraiata a terra davanti al portone di casa sua.
   
«Mi prendete per il culo? Cos'è? Un avvertimento? Una provocazione, eh? Cosa?»
   
Una risata robotica si propagò nelle sue orecchie.
   
«Non prenderla così Wilson, e dai! Non è nulla di tutto questo. Ti sto solo invogliando a fare quello che devi».
   
«Fottetevi e bruciate. Dovete farlo vivi», ringhiò Hunter chiudendo la chiamata. Trattenne un urlo incazzato, perché si trovava nell'androne di casa, si limitò quindi a respirare forte e salire le scale con i pugni serrati. Quello che però lo incontrò lo fece sussultare, calmare e tranquillizzare, per quanto fosse possibile farlo. Anita era sdraiata a terra a pancia in su, con i capelli sparsi sul pavimento, con una gamba piegata e un braccio sotto il seno.
   
Hunter capì, allora, che la foto era molto più recente di quanto si aspettasse. Era stata fatta in tempo reale. Questo lo angosciò.
   
«Che ore sono? Le sei, Hunter?» Chiese, alzando il capo all'indietro: vide le scarpe del giovane e le ginocchia, ma notò che restò immobile, così si mise a sedere.
   
«Cosa ci fai qua?» Domandò lui con il viso pallido.
   
«Penso proprio che tu debba rispondere alla mia domanda, sai?»
   
«Sono le cinque e cinquantanove».
   
«Merda, l'ho mancato di un minuto», sussurrò e voltò il viso.
   
«Adesso sono le sei», annunciò Hunter, sedendosi di fronte a lei e donandole un sorriso affettuoso.
   
«Ho perso comunque la mia scommessa di un minuto». Anita si voltò e puntò i suoi occhi raggianti sul suo viso.
   
«Cosa avevi scommesso?»
   
«Se avessi indovinato l'ora in cui saresti arrivato ti avrei fatto dormire nell'androne questa notte, proprio dove sono seduta io», ghignò.
   
«Vendicativa», sorrise.
   
«Come sempre. Peccato io abbia perso. Di un minuto. Vergognoso, non credi?»
   
«Non ti si addice».
   
Anita stufa, si alzò e Hunter la seguì.
   
«Torniamo alle cose serie, che dici? Inizio dando una risposta alla tua domanda: ho terminato prima, questa sera», lui ne restò sorpreso, perché questo poteva significare solo due cose: che era andato tutto bene o che era andato tutto a puttane.
   
«Per piacere, apri questo portone e parliamone dentro al cado. Sto morendo di freddo». Seguì un silenzio piacevole, mentre Hunter mise la chiave nella serratura.
   
«E la prossima volta che esci quando ci sono programmati i Giochi avvisa Ducan, troverà un modo per farmelo sapere. Bisogna duplicare le chiavi». Lui restò muto, pensieroso e aprì la porta, lei entrò e si diresse in salotto. Lui nel frattempo, preoccupato, guardò fuori dal portone, si accertò che non ci fosse nulla fuori posto e lo chiuse a chiave.

«I tuoi Giochi sono stati annullati, quindi per essere tornata prima vuol dire che è filato tutto liscio durante la tua ipotetica, suppongo, passeggiata, questa volta, no?» Chiese Hunter interrogativo e speranzoso, mentre appendeva la giacca sull'attaccapanni, lei nel frattempo si stava slacciando i lacci degli stivali.

«Hunter, può mai filare tutto liscio se di mezzo ci sono io?» Alzò il capo e lo osservò andare nella sua stanza.
   
«La risposta è retorica», rispose dal corridoio.
   
«Già, è retorica», concordò, sdraiandosi finalmente sul divano.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 02 ⏰

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