Capitolo otto

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Qualche mese prima

Grace

Fisso il telefono, mentre lampeggia il nome di papà sullo schermo.

'L'ennesima delusione, insomma' è tutto quello che c'è scritto. Di seguito, un altro messaggio: 'Stasera vedi'.

Mi traballano le gambe, butto il telefono dall'altra parte del letto, quando torna a lampeggiare. Stavolta, però, il nome che appare sul display è quello di Anastasia.

'Ti sei tranquillizzata?'

No, non mi sono tranquillizzata affatto. Sento l'impellente bisogno di compiere un gesto che mi balena per la testa da mesi.

Senza che io abbia il controllo totale sul mio stesso corpo, mi dirigo verso il corridoio, dove la scrivania di mia madre incombe.

Allungo la mano verso un paio di forbici, che tengo d'occhio da qualche giorno, da quando i miei pensieri intrusivi erano diventati prepotenti.

Cerco un'ultima volta di trovare il pentimento nel sangue, osservando mia madre e mia sorella, entrambe sul divano, a vivere la propria vita, ignare di ciò che sto per fare.

Vengo divorata dal senso di colpa, che mi spinge ancora di più a compiere l'atto che avevo intenzione di compiere.

Mi rifugio velocemente nel bagno, mentre le lacrime rigano il viso e mi sciolgono il trucco.

Entrata dentro, mi richiudo la porta alle spalle e scivolo a terra.

Non c'è sensazione peggiore: non poter mettere mano sul proprio destino, ormai segnato, e trovare conforto in cose come questa.

Non sono stupida, mi sono informata, prima di compiere effettivamente il gesto.

Solitamente la gente lo fa per non soffrire, per trasmutare il dolore mentale in dolore fisico. Io lo faccio solo perché non ho altra scelta.

Mi sento come se fossi obbligata a farlo, come se non avessi altre possibilità.

Smetto di nuotare tra le mie memorie e afferro le forbici. Le apro con una cattiveria disarmante, perfino per me, mi abbasso i pantaloncini e avvicino la lama luccicante alle mie cosce.

Cosa devo fare, ora? Mi infliggo semplicemente dei tagli, finché non mi obbligo a smetterla?

Un male smobilitante mi squarcia l'animo, mentre una lieve gocciolina di sangue sgorga timida dal taglio.

Respiro avidamente, come se non respirassi da una vita.

Arriva anche il secondo, meno doloroso del primo, ma le sensazioni sono le stesse.

Come può l'essere umano infliggersi del dolore, sapendo cosa si prova a patire ciò che sta facendo a se stesso?

Come si fa a vivere in un mondo che ti permette di provocarti dolori lancinanti?

Al terzo taglio mi blocco.

Mi sdraio completamente sul pavimento del bagno, tra respiri affannati.

Torno lucida e, fissando quelle che dovevano essere le mie cosce, mi resi conto dell'idiozia che avevo appena commesso.

Che cazzo di problemi ho?

Continuo a respirare, avida di aria, mentre un conato di vomito mi risale dallo stomaco. Ringrazio di avere il WC vicino, perché mi ci fiondo sopra e inizio a vomitare.

I respiri continuano a farsi sempre più brevi, fino a che non sono costretta a trattenermi il capo con la mano.

Mi poggio con la schiena alla parete della stanza, con continuo rimorso verso ciò che mi ero autoinflitta.

Le lacrime cominciano di nuovo a sgorgare dai miei occhi, ormai gonfi di pianto. La testa comincia a pulsare, i respiri continuano a farsi più flebili.

Non riesco a respirare bene, mi affaccio alla finestra per prendere aria pulita. Gelida, a causa del periodo dell'anno, ma comunque fresca.

I respiri sembrano tranquillizzarsi. L'aria entra ed esce nuovamente dal mio organismo, ma a che prezzo?

La testa, però, continua a pulsare, e le ferite sulle gambe lanciano fitte lancinanti fino alla punta delle mie dita.

Non lo farò mai più, lo giuro, ma basta, vi prego...

I miei pensieri si interrompono quando sento bussare al vetro della finestra.

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⏰ Last updated: May 01 ⏰

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