27 LIV.

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Dentro la berlina nera di Johnson, l'aria è così immobile che nemmeno una mosca osa volare. I due gorilla che siedono davanti non emettono un fiato, mentre io, sprofondata nel sedile posteriore che sembra un divano, lascio che i miei pensieri si snodino e si raggomitolino come fili di seta intrecciati. Fuori dal finestrino, il mondo scorre lento, indistinto, un caleidoscopio di luci e ombre.

"Mi sei mancata."

È un'eco che risuona incessantemente nella mia testa, come un tamburo lontano. Non riesco a togliermela dalla mente, non riesco a staccare quel suono dalle mie orecchie. Ogni volta che chiudo gli occhi, la sua voce mi riempie di brividi, percorrendo ogni fibra del mio corpo.

Devo smetterla, cazzo!

Mi ripeto questa frase in un loop infinito. Devo smettere di pensarci, devo chiudere quel capitolo. È stato solo un errore, dettato dall'alcool.

Non poteva essere sincero, non lo era.

Eppure, una parte di me, quella nascosta in fondo al cuore, crede che lui fosse consapevole di ogni parola, di ogni gesto.

L'amore non corrisposto è uno schifo, te ne sei scordata?

La macchina si ferma con un sussulto, riportandomi bruscamente alla realtà: siamo arrivati a casa. Apro la portiera con uno scatto e cerco di correre verso la porta, ma i due gorilla non me lo permettono.

Johnson, il più grosso, mi blocca con un gesto autoritario.

«Signorina Evans, conosce le regole. Prima noi, poi lei.» mi dice con tono dispotico e deciso.

Non si transige con lui, questo tizio non è corruttibile come Dylan. Non vale nemmeno la pena provarci.

«Ok» rispondo con la testa bassa, la schiena appoggiata all'auto. «Andate pure, fate come se foste a casa vostra. Io sono qui, ma non esisto!» sbraito, lanciando una frecciatina ai due che, indifferenti, si avviano verso la veranda.

Non mi resta che aspettare che abbiano controllato ogni angolo della casa.

Cosa pensano di trovare lì dentro?

Probabilmente, la mossa dei russi è stata solo un modo per spaventarmi a morte, farmi capire che devo farmi gli affari miei.

E ci sono riusciti.

Nell'attesa, decido di mandare un messaggio a Kim. Sono due giorni che non la sento e ho bisogno di sapere come sta. E di chiedere di Noah.

Inizio a scrivere un messaggio e lo invio, tenendo per me il racconto dell'aggressione e delle minacce. Non voglio che si preoccupi per me.

C'è già chi lo fa.

Per fortuna risponde subito.

«Ciao Liv, tutto bene. È da un po' che non ci vediamo. Perché non passi dal Bit sabato? A proposito di Noah, non ha voluto che ti dicessi niente, ma... Ha deciso di andare da suo padre in California, almeno per un po'. Giusto il tempo che le acque si calmino. Tu, tutto bene?»

Il cuore mi si alleggerisce.

Sapere che Noah è lontano da tutto questo inferno mi rassicura. Almeno un problema è risolto. Ma scelgo comunque di non dire nulla a Kim. Preferisco tenerla fuori da questa storia. Quella notte l'ho vista terrorizzata.

«Tutto bene, Kim. Oggi non sono in libreria, non mi sento molto bene. Spero di essere in forma per sabato. Se starò meglio, passerò di sicuro. Un abbraccio.»

Queste maledette bugie bianche.

Non le dico nulla di Perkins che mi tiene rinchiusa a casa sua, né delle guardie del corpo che mi seguono ovunque. Devo riuscire ad andare sabato e accennarle qualcosa: è troppo pesante da tenere tutto dentro.

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