Capitolo 1

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I forti raggi solari penetrarono nella mia stanza illuminando il mio volto assonnato. Strizzai gli occhi ancora chiusi e mi decisi a girarmi dall'altra parte del letto. Potevo, però, ancora sentirne il dolce calore.

«Ancora cinque minuti» bofonchiai, nel mentre mi coprii la nuca con la coperta. Un rumore, quasi simile ad un tonfo, mi destò all'improvviso. Proveniva dalla cucina, ne ero certo. Scostai la coperta con forza e mi precipitai subito in direzione del rumore. Deglutii il nodo che mi si era formato in gola e aprii di scatto la porta della cucina. Mia madre era riversa sul pavimento. Con il braccio sinistro cercava di farsi forza per potersi alzare, ma era evidente che non ci riusciva. Così cercai di afferrarla per la vita e riuscii a metterla seduta.

«Stai bene mamma?» le chiesi preoccupato. Lei annuì soltanto e cercò di alzarsi in piedi, facendo forza sulle mie braccia. Mi guardò con i suoi occhi ormai spenti dal cancro che la stava divorando. Un leggero sorriso comparve sul suo volto scavato dalla malattia.

«Sono solo scivolata, ma sto bene.»

Ogni volta che la guardavo il mio stomaco si contorceva. Era passato un anno da quando aveva scoperto di avere il cancro e non c'era giorno in cui quella dannata malattia mostrava i suoi orribili segni sul corpo di mia madre: il viso pallido e scavato, i suoi capelli castani ormai caduti, il suo fisico magro. Cercavo in tutti i modi di guardarla come avevo sempre fatto in passato, ma non ci riuscivo e lei se ne accorgeva.

«Oggi hai la visita con il nuovo medico, te ne ricordi?»

Mugugnò qualcosa alla mia domanda e si chiuse in bagno.
«Mi preparo e andiamo in ospedale.» mi disse e le risposi che andava bene. Aspettai qualche minuto dietro la porta del bagno, inspirai a fondo e dopo mi preparai anch'io.

Il viaggio in macchina fu breve e silenzioso. Mia madre indossava un berretto di cotone grigio ed un cappotto piuttosto pesante. Erano gli ultimi giorni di aprile e le giornate cominciavano a farsi calde, ma lei diceva che sentiva molto freddo. Di solito nei nostri viaggi in auto eravamo soliti cantare le canzoni che ci piacevano, oppure discutevamo dei programmi tv o di qualche mia stupida cotta per qualche ragazza. La radio adesso era muta. Soltanto il rombo del motore e qualche clacson rompeva quel silenzio surreale.

Dopo aver parcheggiato, entrammo nel reparto di oncologia dell'ospedale e dopo aver chiesto del nuovo medico, attendemmo in sala d'attesa. Passarono solo pochi minuti e dall'ufficio comparve un uomo molto giovane che ci accolse con un grande sorriso. Aggrottai le sopracciglia con un riflesso quasi involontario. Perché ci salutava così calorosamente? Perché ci sorrideva? Se eravamo lì, era perché mia madre era malata, aveva il cancro. Questo tizio non ha rispetto, pensai.
Con il suo gran bel sorriso, ci fece accomodare nel suo studio. Era una stanza piccola, ma ordinata. Aveva molte cornici sulla scrivania, sulla quale i fogli erano ben disposti assieme alla cartelle cliniche. Ne aprì proprio una, non appena ci fummo accomodati. Il sole faceva prepotentemente capolino dalle veneziane semi aperte, producendo sulla scrivania disegni geometrici perfetti. Uno di questi cadde sul capo chino del dottore. Aveva capelli nerissimi corti e i suoi occhi chiari erano intenti a leggere la cartella clinica. Fu mia madre a rompere quel silenzio che si era creato.

«Dottore, lui è mio figlio Alessandro. E' il mio unico figlio. Sa io e mio marito abbiamo divorziato tanti anni fa e non mi rimane che lui».

Abbassai la testa imbarazzato. Non riuscii nemmeno a capire il motivo per cui ero imbarazzato, ma non appena risollevai lo sguardo, incontrai quello del dottore, che come prima sorrideva. Stizzito continuai a guardarlo, ma senza dire nulla. Lasciai che fosse lui a presentarsi.

«Io sono il dottor Davide Rossi e sarà un piacere per me poterla seguire signora» disse in tono così cordiale e calmo da farmi venire il mal di stomaco. Possibile che questo tizio non si rendeva conto che mia madre poteva morire da un momento all'altro? Come poteva avere così poco rispetto?

«Dunque, ho esaminato la sua cartella clinica e continueremo come il mio collega aveva predisposto. Dovrà continuare con i cicli di chemioterapia per tenere a bada la malattia, ma devo dirle signora che vorrei riuscire a portarla ad un intervento per poter togliere il tumore. Ho bisogno che lei sia forte e che combatta» disse guardando mia madre negli occhi.

Combattere, diceva. Come se fosse facile.

Mia madre rimase in ospedale per la chemio e, siccome non potevo restare con lei, la salutai con un timido sorriso e mi avviai verso il bar dell'ospedale. Erano le 11 del mattino, ormai le lezioni all'università erano già iniziate da tempo, chissà cosa avrebbe spiegato oggi il professore di storia moderna, pensai. Sospinsi la porta del bar e cercai subito un tavolino libero. Una cameriera dai lunghi capelli biondi mi si avvicinò sorridendomi e chiedendomi cosa potesse portarmi.

«Un caffè» dissi seccamente, mentre afferravo il quotidiano per leggerlo. La cameriera si allontanò e piano quel finto sorriso si spense. Maledizione, cos'hanno tutti da sorridere?

Perso in quel pensiero, non mi accorsi che il dottor Rossi si avvicinò al mio tavolo. Aveva in mano una grossa tazza di cappuccino, che subito appoggiò sul mio tavolo.

«Alessandro, giusto?» disse e si sedette accanto a me, senza nemmeno chiedere se quel posto era libero. Annuii alla sua domanda, quindi continuai a leggere il giornale.

«Deve essere molto affezionato a sua madre» mi disse, sorseggiando il suo cappuccino. Notai i suoi occhi azzurri scrutarmi, quindi appoggiai il giornale e lo guardai a mia volta.

«Si, lo sono. E' la mia famiglia. Non ho fratelli e sorelle, quindi...»

Non finii la frase che lui intervenne subito.

«Perchè è arrabbiato?» mi chiese con tutta la semplicità del mondo.

Rimasi con la bocca dischiusa a guardarlo. Le parole mi si bloccarono in gola e non ne volevano sapere di uscire. Lui continuava a sorseggiare il suo cappuccino, alternando lo sguardo dal dolce liquido caldo al mio viso. In quell'istante la cameriera si avvicinò portandomi il caffè, che adagiò piano sul tavolino.

Avrei voluto vomitargli in faccia tutto quello che avevo pensato quando ero nel suo studio, avrei voluto spaccargli quel sorriso dalla faccia, ma restai in silenzio. Quindi afferrai la tazzina e sorseggiai un po' di caffè. Quella sensazione di amaro sembrò risvegliarmi. Stavo per aprir bocca per dirgliene di tutti i colori, ma lui si alzò e mi sorrise ancora.

«Ci pensi, magari me lo dirà un'altra volta. La saluto.»

Si avviò quindi verso il bancone per pagare e dopo uscì dal bar.

Non riuscivo a capire perché mi sentivo così in sua presenza. Di fronte a quell'uomo mi sentivo un bambino, incapace di parlare e di esprimersi. Avevo come l'impressione che il suo sguardo sapesse leggermi dentro alla perfezione.
Finii con calma il mio caffè e con mia grande sorpresa, scoprii che era già stato pagato dal dottore.

A grandi falcate, mi diressi verso il suo studio e una volta bussato entrai senza attendere alcuna risposta. La luce del sole m'investì di colpo, tanto da farmi socchiudere gli occhi. Lui si alzò dalla sua poltrona e mi venne incontro. Chiuse la porta alle mie spalle e m'invitò a sedere. Rimasi, però, in piedi dinanzi a lui. Ero visibilmente arrabbiato e, quindi, senza l'esitazione che prima mi aveva colto iniziai a parlare.

«Mi ha chiesto perché sono arrabbiato... e me lo chiede anche?! Mia madre ha il cancro! Maledizione! La nostra vita sta crollando! Potrebbe morire da un momento all'altro e lei sorride come se niente fosse. Non ha un minimo di rispetto. Tutti sorridono, tutto il mondo va avanti. Lei sta soffrendo ed io... non posso farci nulla. Non posso fare niente per lei... Perché a lei?!» gridai infine e, nel contempo, mi accorsi che qualcosa scendeva sulle mie guance. Portai la mano al viso e mi accorsi che era bagnato. Mi stupii di ciò che stava succedendo. Non mi era mai successo di aprirmi in quel modo con qualcuno. Mi affrettai ad asciugarmi le lacrime con la manica del giubbotto. Quindi mi girai verso la porta ed afferrai la maniglia per poter uscire al più presto dal suo studio, ma due forti braccia bloccarono i miei passi e mi cinsero la vita. Tutto si svolse in una frazione di un secondo. Il dottore abbracciò il mio corpo tremante e le lacrime continuarono a sgorgare senza che io potessi fermarle. Quindi mi voltai ancora verso di lui. Sul volto aveva un espressione raddolcita ed il suo sorriso era così confortante, da farmi completamente abbandonare a lui. Velocemente avvicinò il suo viso al mio e mi baciò.

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