Capitolo 12

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Ero troppo teso per guidare, quindi Davide mi accompagnò in macchina all'ospedale. Dalla sua faccia traspariva solo preoccupazione. Fissai il paesaggio che mi si presentava davanti. Ogni via che imboccavamo sembrava infinita. L'ospedale sembrava una meta irraggiungibile, eppure Davide andava abbastanza forte. Un silenzio gelido calò fra noi. La tensione, che entrambi provavamo, era palpabile.

Da quel che mi aveva detto mio padre al telefono, era andato a farle visita e mentre conversavano era svenuta e non si era più ripresa. Così aveva chiamato l'ambulanza e l'avevano portata all'ospedale.

«Non ti preoccupare, Ale. La visiterò non appena arriviamo» mi disse Davide, interrompendo il flusso dei miei pensieri.

Fui rassicurato dal fatto che Davide mi avesse accompagnato. Mi agitai talmente tanto che le miei gambe erano incapaci di sorreggere il mio peso.

«Grazie...» gli dissi con un piccolo e forzato sorriso.

Finalmente arrivammo in ospedale e, dopo aver parcheggiato, Davide ed io ci dirigemmo verso il pronto soccorso. Andai diritto verso il bancone delle informazioni e chiesi di mia madre. L'infermiera mi disse di aspettare in sala d'attesa, non dicendomi nulla sulle condizioni di mia madre.

«Mi può dire come sta?» chiesi all'infermiera leggermente alterato.

«Il medico la sta visitando, la prego di attendere.» mi disse ancora.

Davide in quel momento, poggiò la mano sulla mia spalla e attraversando il bancone s'identificò come dottore e dipendente di quell'ospedale. Con un breve sorriso, mi fece segno di aspettare, mentre si dirigeva verso il letto di mia madre. Non potei fare altro che dirigermi verso la sala d'attesa, gremita di gente.

Avevo lo sguardo basso ed ero tesissimo. Non mi accorsi che qualcuno alle mie spalle mi afferrò il braccio e mi trascinò all'esterno del pronto soccorso.

«Sei un imbecille!» tuonò mio padre, lasciandomi andare il braccio «Dove diavolo eri? Come hai potuto lasciare tua madre da sola?»

Il suo sguardo era carico di odio ed io, ascoltando le sue parole, finii per sentirmi terribilmente in colpa. Abbassai lo sguardo e non dissi nulla ma lui continuò a parlare.

«Per fortuna c'ero io lì, altrimenti sarebbe potuta morire lì da sola. Sei uno stupido.»

Il senso di colpa aumentò notevolmente, tanto che chinai il capo ancora di più. Sollevai una mano, posandola sul gomito. Lo strinsi nervosamente. Lui approfittò del mio stato e continuò a inveire contro di me.

«Sei una continua delusione! I tuoi fratelli hanno dei voti eccellenti all'università e al liceo. Tu, invece. Sei indietro con gli studi e te ne vai in giro a divertirti.»

«Non sono miei fratelli... sono solo figli tuoi...» replicai con un tono di voce bassissimo.

«Non cominciare Alessandro! Hai lasciato tua madre gravemente malata da sola... dovresti solo vergognarti!»

Mi morsi il labbro, tanto da sentirlo sanguinare all'interno della mia bocca. In quel momento Davide uscì dal pronto soccorso. Squadrò dapprima mio padre, poi guardò me, che avevo quasi gli occhi lucidi.

«Sono il dottor Rossi. Sono un oncologo. La signora Ferretti è in cura da me.»

Mio padre si avvicinò a Davide, stringendogli la mano che lui aveva allungato. Gli sorrise fintamente, poi Davide contnuò a parlare.

«Ho fatto trasferire la signora nel reparto di oncologia, così potrò seguirla direttamente io.»

«Va bene, grazie.» gli disse ed entrò nell'ospedale.

Davide prontamente mi si avvicinò e posandomi una mano sulla spalla, mi chiese se stavo bene. Annuii alla sua domanda, mantenendo il capo chino.

«Andiamo...» mi disse, accarezzandomi il capo affettuosamente.

Non dissi più nulla e lo seguii all'interno dell'ospedale.

* * *

Sedetti su una sedia di metallo nella sala d'attesa. Mio padre era in piedi, con le braccia incrociate al petto, guardando verso la porta. Mi sporsi in avanti e mi presi il volto fra le mani. Sospirai più e più volte, cercando di calmare l'ansia che cresceva dentro me. Il mio stomaco era a pezzi e mi faceva male. Alzai lo sguardo e vidi mio padre guardarmi con sdegno, poi tornò a guardare la porta, da cui presto uscì Davide. Mi alzai velocemente dalla sedia e mi avvicinai a lui assieme a mio padre.

«La signora al momento è stabile. Quando è arrivata al pronto soccorso aveva la febbre alta. Durante i cicli di chemioterapia è molto frequente avere la febbre. Adesso l'abbiamo fatta scendere. La terremo in osservazione fino a domani» disse Davide, alternando lo sguardo tra mio padre e me. Sospirai quasi sollevato, mettendomi una mano al petto. Davide ci lasciò soli ed andò nel suo ufficio. Entrai nella stanza di mia madre. Una grossa sacca trasparente pendeva dall'asta per la flebo. Attraverso un tubicino era attaccata al braccio di mia madre, la quale, seppur distesa, ci guardò sorridendoci non appena mio padre ed io ci avvicinammo a lei.

«Mamma, come ti senti?» le chiesi con un fil di voce, accarezzandole la mano.

«Che domanda stupida...» sentenziò mio padre, rimanendo in piedi con le braccia incrociate.

«Sto bene...» disse mia madre sospirando «Non preoccuparti. Sarà stata la febbre a farmi svenire...»

Annuii silenzioso. Fu, invece, mio padre a parlare, con il suo solito tono altezzoso.

«Questo non cambia il fatto che ti ha lasciata da sola... poteva essere più grave di una febbre, che sarebbe successo?!»

«Anche se fosse stato con me, non avrebbe potuto far nulla.» disse mia madre a mio padre, che si risentì per la risposta ricevuta.

Lasciai la mano di mia madre e a testa bassa, uscii dalla stanza. Mi diressi verso l'ufficio di Davide e, aprendo immediatamente la porta, entrai spedito. Spinsi la porta dietro di me, che, però, non si chiuse completamente. Davide si alzò e mi venne incontro. Non potei aspettare e mi fiondai fra le sue braccia. Davide mi cinse la vita e mi strinse a sé più forte che poteva.

«Grazie... Davide...» dissi, versando qualche lacrima che bagnava la sua spalla.

«Non ho fatto nulla» disse stringendomi ancora «Tu stai bene?»

Annuii e, subito dopo cercai le sue labbra. Lui contraccambiò il mio bacio e spostò la sua mano sulla mia guancia, accarezzandola teneramente.

«Che cosa state facendo?!» urlò qualcuno alle nostre spalle.

Mi allontanai subito da Davide e, girandomi verso la voce, scoprii che era mio padre. Ci guardò sorpreso e richiuse con violenza la porta dietro di sé, creando un tonfo sordo che rimbombò per tutta la stanza. Sgranai gli occhi e vidi Davide dietro di me sorpreso quanto me.

Mio padre si avvicinò a grandi falcate verso entrambi. Con un braccio mi spostò e con l'altro afferrò un lembo del camice bianco di Davide.

«Che cosa stai facendo a mio figlio?!» chiese furente a Davide, che però rimase in silenzio.

La rabbia cominciò a crescere dentro me. Afferrai il braccio di mio padre e lo strinsi forte, tirandolo verso di me, feci si che mollasse la presa dal camice di Davide. Lo spinsi via, tanto che barcollò all'indietro.

«Non ti azzardare a mettere le mani addosso alla persona che amo!» esclamai arrabbiato.

Mio padre dapprima rimase sbigottito, poi prese a ridacchiare nervoso.

«Sei una continua delusione! Mi fai schifo! Non ti considero più mio figlio!» urlò guardandomi in faccia, poi puntò il dito verso Davide «Io la farò radiare! Gliela farò pagare!»

Il mio braccio e le mie gambe si mossero da sole verso mio padre. Richiusi la mano tanto da formare un pugno e colpì in pieno volto mio padre, che ricadde all'indietro. Sentii un formicolio corrermi lungo le nocche, fin all'avambraccio e poi il dolore s'impossessò della mia mano.

«Se ti azzardi a parlare male di lui, dovrai vedertela con me!» gli dissi guardandolo dritto negli occhi.

Lui si rimise in piedi e, massaggiandosi la guancia, uscì dalla stanza, sbattendosi la porta dietro di sé.

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