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Daniel

23 ottobre

Quel giorno fu differente rispetto a tutti gli altri. La prima cosa saliente a rendere evidenti le disuguaglianze era stata la traslazione della sala ad un piano più in alto. Soltanto quell'avvenimento aveva reso ogni cosa non più identica a come lo erano state fino al giorno prima, per tutto un lungo mese che pareva essere durato da un lato due secondi, ma dall'altro mi rendevo conto fossero pur sempre trentadue giorni. Era stato fin troppo e quel lasso di tempo doveva terminare al più presto e volgere al termine.

Nei primi giorni di quel mese avevo faticato tanto per adattarmi all'idea che Andrea si trovasse in una sala tristissima d'ospedale, rinchiuso là dentro da un sonno profondo che non gli permettesse di urlare alle mie risposte nonostante, ne ero certo, la sua volontà scalpitasse per uscire da quel corpo dormiente.

In un istante mi ritrovavo a dovermi abituare ad un nuovo ambiente: una sala più grande, ad un piano più alto, ancora più vertiginoso, se ci si affacciava dalla finestra, di quanto giá non lo fosse il secondo. I macchinari attaccati al suo petto erano quasi raddoppiati. Che cosa stava accadendo al suo corpo che non andava? I medici mi nascondevano qualcosa? C'era qualcosa di non detto?
Qualcosa di cui preoccuparsi seriamente?

In quel primissimo giorno di grandi cambiamenti arrivai in anticipo in ospedale. Volevo avere il tempo di abituarmi al cambiamento che probabilmente si sarebbe rivelato essere niente di poi così tanto sconvolgente. Ma ero comunque in uno stato di apprensione che dovevo cercare di placare. La mia mente era stata portata a fare un unico e solo collegamento: se i medici avevano avuto la necessità di monitorarlo più di quanto non facessero quei dannati macchinari dalle molteplici icone lampeggianti significava che qualcosa di spiacevole si stesse compiendo.

Percorsi le scale a piedi dal secondo piano al terzo con lentezza. Volevo percepire l'atmosfera attorno a me muovendomi con i miei passi, evitando che l'ascensore mi trasportasse rapidamente più in alto fra le sue cineree porte d'acciaio che, chiudendosi di scatto, mi avrebbero impediyo d'osservare l'ambiente che mi circondava.

Raggiunsi il terzo piano guardandomi a destra e a sinistra alla ricerca di qualcuno a cui domandare ausilio.
Poi, mia zia Rita, di turno in quel momento, comparve dai servizi, mani fruganti nel marsupio del suo camice bianco, bocca socchiusa pronta a sbuffare per la poco fruttuosa ricerca all'interno della capiente tasca, posta lateralmente.

"Ciao, zia" esordii, andandole incontro una volta diretti i miei passo verso di lei.
"Ciao, Daniel! È un po' che non ci vediamo" parlò lei, finalmente riscontrata la posizione del suo pacchetto di fazzoletti mezzo vuoto, indispensabili visto il raffreddore che rendeva la sua voce nasale in maniera inconfondibile.
"Primi raffreddori?" domandai adagiando le mani nelle tasche del mio giubbotto.
"Già" disse, soffregando con energia le narici, arrossatesi per essere state stropicciate energicamente.
Acconsentii al che mi desse un buffetto sulla spalla, poi tagliai corto il discorso per arrivare dove volessi.

"Senti zia, sai dov'è Andrea?" domandai alzando le sopracciglia e mostrandomi paziente e disinteressato nonostante fossi l'esatto contrario.
"Andrea?" chiese, interponendo un dito fra le labbra sottili e il naso. Evidentemente non aveva compreso a chi stessi facendo riferimento.
"Il ragazzo che adesso è...". Mi bloccai, arrestando improvvisamente le mie parole. Non mi andava di pronunciare quella parola, mi faceva troppo male.
"Ah, sì! Ho saputo recentemente che è stato trasferito su questo piano" disse, intendendomi tutto ad un tratto.
"Sapesti dirmi dov'é?" insistetti non ricevendo risposta al mio quesito.
"Purtroppo no, dovresti chiedere a Marco" mi propose di fare lei. La guardai in cagnesco.
"Chi è Marco?" caddi dalle nuvole per un istante.
"Marco è... ah, come te lo spiego..." disse a bassa voce, dondolando un paio di volte le braccia avanti e indietro.
"Hai presente quel signore sulla trentina, con i capelli corvini e gli occhi chiari?".
"Ah! Sì! Certo che so chi è. È l'infermiere di Andrea, a proposito" dissi schioccando le dita. Stavamo parlando dello stesso Marco.
"Ecco. Dovresti domandare a lui".
"Zia, sapresti dirmi dove si trova, almeno lui?".
"Guarda, dovrebbe essere laggiù, in quella sala" sentenzió, indicandomi un punto al fondo del corridoio con il suo indice affusolato e smaltato di un colore ceruleo, tutt'altro che contenuto per il luogo nel quale stesse operando.
"Grazie mille" pronunciai con un lieve sorriso sulle labbra. Dopodichè mi avviai verso la mia meta, zaino in spalla e passo spedito.

Non ti lascerò dormire da solo Where stories live. Discover now