Settimo Capitolo

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Voglio specificare che lo spazio 'author's corner' è di qualche anno fa.
Io ho semplicemente riportato i pensieri dell'autrice, perché alla fine la storia è sua e mi sembrava giusto mettere tutto.
Come ho già detto all'inizio, io pubblicherò un capitolo al giorno tutti i giorni fino alla fine.
Detto questo, spero che la storia vi stia piacendo.
Kissy.

Make it a good one, eh?





Well, you'll remember me a little.
I'll be a story in your head, but that's okay, because we're all stories in the end.
Just make it a good one, eh?
Because it was, you know.
It was the best.














Harry si sveglia di colpo, le lenzuola che lo stringono in una morsa soffocante e le mani che gli tremano impercettibilmente.
Si guarda intorno, frenetico, e si rilassa leggermente nel vedere tutti quegli oggetti accatastati ovunque, tutti quei colori ammassati come per creare un disegno da trovare, da indovinare, da immaginare.
Deglutisce, tirandosi su a sedere, e si libera del groviglio di coperte.
Abbozza persino un sorriso, mentre il battito cardiaco gli torna progressivamente a un ritmo normale, perché quel cambiamento di ambiente gli sta facendo effettivamente bene.
È tutto merito di Niall, naturalmente, che a un certo punto, nel bel mezzo della festa della sera prima, è andato a recuperarlo nella tenda del Pronto Soccorso urlando qualcosa come il tuo stato fisico è sotto controllo, amico, perciò non vedo perché dovremmo farti restare lì dentro e trascinandolo in un posto letto libero in uno dei vagoni della metro.
Harry è felice che il biondo l'abbia fatto: lì è tutto più... caldo?
Accogliente?
Non sa neanche lui come definirlo, ma l'incubo di quella notte è svanito più in fretta del solito, al suo risveglio, e questo non può essere che positivo.
All'improvviso, Harry si ritrova a pensare che forse non avrebbe neanche avuto bisogno di calmarsi, se avesse dormito di nuovo insieme a Louis.
O forse sì lo provoca una vocina insistente nella sua testa, ricordandogli il problema che gli è spuntato fra le gambe la sera prima.
Harry s'impone di non pensarci, mentre si spoglia in fretta e s'infila i vestiti che qualcuno gli ha lasciato sulla sedia accanto al letto, con tanto di biglietto allegato, e spera che non gli capiti più una cosa del genere, perché per farla sparire ha dovuto farsi tornare in mente i momenti più atroci della sua vita nella Capitale e non è stato affatto piacevole.
Inoltre, probabilmente Louis quella notte ha avuto di meglio da fare.
Un improvviso moto di rabbia gl'incendia il torace, mentre immagini del ragazzo che balla con un altro gli scorrono malevole sotto le palpebre, e si affretta ad inserire tutti i bottoni della camicia bianca a righe nelle rispettive asole.
Nell'impeto di quella sensazione bruciante, stropiccia fra le dita il foglietto su cui spicca una H d'inchiostro nero, non facendo minimamente caso alla scritta sul retro, e se l'infila nella tasca dei pantaloni, precipitandosi fuori subito dopo.
Rimane per un attimo folgorato da ciò che si ritrova davanti: nei giorni precedenti si è abituato a camminare in mezzo agli alberi, trafitto da luci naturali e rami disordinati e fiori.
Ora è tutto ferro, metallo e bulloni.
Anche il Nontiscordardime che Louis gli ha incastrato dietro l'orecchio ormai è appassito, abbandonato sul suo neo-comodino come l'ennesimo fallimento di quell'universo incasinato.
Harry deglutisce, superando decine di persone indaffarate a indaffararsi, impegnate ad impegnarsi, a non pensarci, a costruirsi gli ennesimi microcosmi di quotidianità precari.
Un brivido gli percorre il corpo intero, quando si rende conto che ciò che sta guardando è un mondo che rimane in piedi a stento.
Però rimane in piedi e questo, si dice Harry, è straordinario.
«Come ti chiami?»
Il riccio si blocca di colpo, voltandosi verso il ragazzino che ha pronunciato quella domanda del tutto inaspettata.
I suoi capelli rossi gli risultano familiari, in qualche modo, e all'improvviso ricorda di averli visti sparsi sul cuscino del letto accanto al proprio, nel buio della notte rischiarato solo dalla torcia tremolante fra le mani di un Niall non del tutto sobrio.
«Harry» risponde. «E tu?»
Il ragazzino inclina la testa, facendosi scivolare una ciocca fiammeggiante sulla guancia ricoperta di lentiggini.
«Cameron.»
Harry annuisce, meccanicamente, guardando l'altro sedersi per terra e imitandolo senza quasi accorgersene.
L'atrio principale, tutt'intorno a loro, pullula di gente.
«Da quanto tempo sei qui?»
Cameron scuote le spalle, prima di rispondere.
«Da sempre, più o meno. Avevo quattro anni quando mio papà mi portò qui insieme ai primi ribelli. È morto l'anno scorso.»
Harry rabbrividisce.
«Mi dispiace.»
«Davvero?»
Il corpo del riccio s'irrigidisce improvvisamente, il respiro strozzato di fronte a quella domanda così innocente, così spontanea, così terrificante.
«Sì, davvero.»
Il sorriso che spunta di colpo sul volto di Cameron è tanto inaspettato quanto benaccetto.
«Niall dice che sei come noi, adesso» sentenzia sicuro.
Harry deglutisce e non risponde, tace perché non sa cosa dire, non sa se sia il caso di ringraziare o piuttosto disperarsene.
«Se sei come noi significa che prima o poi dovrai andare da Jeff.»
«Jeff?»
Cameron annuisce, le centinaia di piccoli soli a seguirlo immediatamente, aggrappati alle sue guance.
Poi il suo sguardo si posa su un punto lontano e rimane lì, agganciato, e Harry non può fare altro che lanciare anche il proprio, subito dopo.
In un angolo dell'atrio, semi nascosto dal viavai frenetico degli individui e dei loro abiti colorati e dei loro discorsi urlati, sussurrati, confessati, costruiti e poi disintegrati, v'è un uomo sui cinquant'anni, chinato su un tavolino di legno pieno zeppo di fogli.
Davanti a lui, sei o sette persone stanno in piedi, una dietro l'altra, come se stessero aspettando il proprio turno per parlargli, o per guardarlo negli occhi – Harry si chiede distrattamente se per caso non sia possibile fare una cosa simile anche per quel rituale delle dieci e ventotto, tipo prendere il numerino per prenotarsi un minuto con Louis, o magari anche meno, anche dieci secondi al giorno.
«Cosa sta facendo?» domanda con un filo di voce, gli occhi incollati a quella figura che sembra così fragile e allo stesso tempo così importante.
«Jeff raccoglie anime» sentenzia Cameron con un sorriso che sposta i suoi personalissimi soli verso altre galassie, verso altri cieli. «Raccoglie storie, raccoglie persone.»
Harry trema, dal primo all'ultimo strato di epidermide, e nota la presenza di un particolare quaderno nero su cui l'uomo si accanisce, così all'improvviso, subito dopo che la donna che gli stava seduta davanti s'è alzata con un movimento repentino, come se si fosse ritrovata di colpo con un corpo più leggero.
«Perché non prende appunti sul momento, mentre ascolta?»
Cameron sorride di nuovo e Harry pensa che vivere in quell'universo dev'essere un bel casino.
«Perché altrimenti non c'è gusto» risponde. «E poi che senso ha buttare fuori delle storie se prima non te le sei fatte entrare dentro per bene?»
Harry non sa ribattere e si limita a tacere, continuando ad osservare Jeff che si tuffa tra le pagine, nuotatore di professione in quella marea di lettere.
Poi il riccio si alza, lentamente, e comincia a camminare.
Quando arriva davanti a Jeff non può fare a meno d'irrigidirsi completamente, le dita strette in modo convulso allo schienale.
«Quanto tempo hai?» chiede.
Jeff alza lo sguardo, due pozzi neri che lo trascinano giù, nella sua biblioteca personale, nei suoi scaffali colmi di polvere e anime imbottigliate.
«Tutta la vita» risponde.

Twenty-eight past ten. Where stories live. Discover now