31. Sbagliato

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«Mi hai seguito»

La sua non era una domanda, una semplice constatazione. Non ne sembra sorpreso o arrabbiato, forse solo rassegnato. Non aveva bisogno di guardarmi per accertarsi della mia presenza, probabilmente sono l'unica persona che conosce nel raggio di miglia.

Sono arrivata poco dopo di lui, l'ho trovato nella stessa posizione in cui si trovava settimane fa': chino sopra la stessa lapide. Da allora, nonostante le numerose occasioni, non sono mai tornata a leggere il nome che vi è inciso sopra.

Non sono affari miei, dovrebbe sentirsi lui libero di parlarmi, è sbagliato profanare così il suo volere. Semplicemente sentivo fosse sbagliato, ora, complice la curiosità, un po' lo rimpiango.

Le larghe spalle fasciate dalla semplice maglia sono ricurve, i muscoli della schiena tesi, così come l'intero corpo di Allen. Non mi è una scena inconsueta. Ormai sono famigliare col suo costante sussurro d'aiuto. Allen Cross, l'adolescente prodigio, non urlerà mai in cerca di aiuto. Sussurra, quasi timido aspettando e corrodendo.

Ho desiderato così ardentemente questo momento con lui, che ora ne sono pietrificata. Non so cosa dire, cosa fare. MI sembra tutto così sbagliato, io in primis. Stono completamente qui, accanto al suo dolore, più vicina di chiunque altro al suo lato vulnerabile.

Senza riuscir a risvegliare le corde vocali riesco solo ad annuire, chinato com'è dubito mi abbia visto farlo. Partecipe in qualche modo del suo dolore, riesco solo ad avvicinarmi con piccoli passi.

«Che ci fai qui? Pensavo d'esser stato chiaro l'ultima volta», sputa senza però animare le sue parole. Il suo tono di voce è monocorde, quasi come se non provasse nulla. Per qualche motivo ciò mi ha pugnalata più del suo normale tono arrabbiato. «Torna da tua madre»

Non avrei dovuto rincorrerlo, non sarei dovuta andare a parlargli in quel stupido bar. Nonostante l'evidente stupidità e l'eccesso masochismo che ultimamente sembro provare verso me stessa, decido di restare.

Una parte di me vorrebbe chiedergli perché insista con mia madre, l'altra, ben più logica, pensa non sia il momento adatto per farlo.

Scaccio tutti i pensieri e mi fermo in prossimità del suo corpo. Da qui posso facilmente leggere il nome sulla tomba, ma ancora una volta decido di non farlo. Mi concentro esclusivamente sul suo capo chinato, su suoi morbidi capelli spettinati, sulle guance leggermente arrossate.

Mi era mancato terribilmente, ne ero già consapevole, ma solo ora il peso di tutto ciò mi ha investito.

Gli poso una mano sulla spalla, sussulta leggermente e se possibile si è irrigidito ancor di più. Tutte queste reazioni da parte sua mi fanno male, sento tante, minuscole ed infinite ferite. La cosa più sana per me sarebbe allontanarmi all'istante, dimenticare tutto, dimenticare lui.

Ma come accennato prima, quando in ballo c'è Allen Cross tendo ad esser molto masochista. Se in gioco c'è la nostra amicizia, la sua serenità, allora voglio giocare.

«Non me ne vado»

Scuote il capo, alcune ciocche gli finisco in mezzo alle ciglia folte ma non si cura di toglierle. Resta chino, appoggiato a quel pezzo di marmo. «Ti prego», sussurra, sembra sull'orlo del pianto.

Mi è impossibile capire se mi stia pregando di andarmene o di restare. In ogni caso, per questa volta, si fa a modo mio. Ho già provato a dargli ascolto, speravo nonostante tutto che migliorasse, che si riprendesse. Non è stato così. Ora si fa' come dico io.

Continua a scuotere il capo, fissa la lapide e ne accarezza i bordi. Probabilmente, come me, starà pensando che io in quel quadretto non centro proprio nulla. Mi sorprende però quando le sue spalle tremano leggermente. Sta piangendo, ci manca poco che singhiozzi.

Come il cielo a mezzanotte Where stories live. Discover now