36. Coraggio

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Ci sono tanti modi per esser coraggiosi, molti dei quali possono essere molto stupidi. Esser coraggiosi non si limita ad affrontare una situazione di particolare pericolo, non definisce solo un modo di comportarsi.

Esistono tante definizioni di coraggioso, a volte basta affrontare una propria paura per esserlo. A volte invece non basta. A volte bisogna affondare i denti nel proprio dolore, stringere e resistere. Affrontare il momento, consapevole che tutto peggiorerà sempre di più. É questo il tipo di coraggio di cui ho bisogno ora.

C'è un momento però, in cui credere d'esser coraggiosi abbastanza ci rende ipocriti. Le parole non bastano, né tanto meno le autoconvinzioni. Non voglio esser quella ipocrita, ma so anche di non possedere il coraggio necessario.

A volte, quando il coraggio manca ci appoggiamo ad altre persone. Lasciamo che queste si prendano cura di noi, sfruttando la loro gentilezza come parassiti. Le persone gentili sono forse le più ipocriti, si lasciano usare, dando sostegno ed affetto, ricevendo in cambio solo un quarto di ciò che gli è dovuto.

Mi sento un parassita, un parassita codardo ed ipocrita. Mi sento così perché nonostante le ore passate Naomi ed Allen sono ancora qui, seduti al mio fianco sulle scomode sedie dell'ospedale. Sono passate ore e nessuno dei due sembra disposto ad andarsene.

Loro sono preoccupati, preoccupati per me. Sanno che presto crollerò, che il briciolo di lucidità che mi resta se ne andrà con mia madre. Sembrano febbricitanti, pronti a scattare. Mi guardano, si danno turni per chiamare gli altri e rassicurarli, per rassicurare me e parlare con mio padre.

Si comportano come angeli custodi, ed io da egoista quale sono riesco solo ad aggrapparmi a loro. Sono deplorevole ma non posso farci nulla, ne ho così dannatamente bisogno ora.

Spesso, insieme al coraggio compare anche il rimorso. É un effetto collaterale, compare se non si fa la scelta giusta, anche se questa viene dal cuore.

Il rimorso ti fa sentire una merda, un verso straccio. Codarda, ecco cosa sono. Prossima al rimorso, al tormento. Quasi non riesco a capacitarmi delle mie condizioni, come sono finita in questo stato? Non riesco nemmeno ad alzarmi da questa sedia.

Vorrei urlare e spaccare tutto, dirle di restare, di non abbandonarmi anche lei. Deve lottare, doveva... ormai è tardi, ed io non posso farci nulla. Mi sembra tutto un casino così grande. Faccio persino fatica a respirare, sono affannata, come se stessi realmente urlando dentro di me.

Ho bisogno di una spinta, di coraggio per parlarle, o me ne pentirò a vita.

Lei non è totalmente in grado di pensare ora, ha brevi momenti in cui ritorna in sé, ma del resto è bella che andata. Sono qui da ore, ma non l'ho ancora vista. Non ne ho le palle. Rimpiangerò questo momento per sempre.

Dopo un po' le mie lacrime si sono prosciugate, non scende più nulla. Mi sembra quasi un disonore tutto ciò, come se non ne avessi versate abbastanza, come se dovessi soffrire molto di più.

Mi sembra di star impazzendo ancor di più.

Quando di mezzo ci sono l'amore e l'affetto, sembra tutto assumere una sfumatura più drammatica. Il dolore si fa' più tangibile, e la prospettiva del futuro più sfocato. Nell'esatto momento in cui penso al "dopo", un terribile mal di testa mi blocca. Ora, in questo ospedale, non esiste un dopo.

Una perdita è comune, tutti soffrirebbero al mio posto. É normale, continuo a ripetermi; era inevitabile. A volte, tra le due e quattro volte nel raggio di un ora, mi chiedo se forse non fosse stato meglio non esser a conoscenza della malattia. Mi sarei risparmiata tutta l'ansia e la sofferenza degli ultimi mesi, avrei colto tutto di botto, come la maggior parte delle volte succede.

Come il cielo a mezzanotte Where stories live. Discover now