15. Desiderio

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La domenica passò infinitamente lunga. Una di quelle domeniche in cui guardi l'orologio e sono passati solo pochi minuti da quando l'hai guardato l'ultima volta. L'attesa è snervante. Sì, attesa. Ma, attendere chi? Cosa? Perché? Quante domande, quante lacrime, che vita di merda. Trascorsi quella giornata in pigiama, a leggere uno dei due libri che Michelle e Paolo mi hanno comprato al centro commerciale di Catania. «Che faccia di cazzo, amor mio!» aveva detto mia madre non appena mise piede in casa. Lei, Peppe ed Emy mi si fiondarono addosso, e nemmeno senza posare i sacchi e i borsoni. «Tadà! Questi sono per te. E non dire che non ti pensiamo, cara!» Paolo, il mio meraviglioso, nuovo/primo papà, mi porse un sacchettino giallo con scritto "Giunti". Per un momento sentii le gambe leggere come fili di cotone sotto il mio corpo estremamente eccitato. Finalmente il seguito del mio "Dominio della Regina". «Tempesta di Spade! Oh, ragazzi, il miglior regalo che mi avreste potuto mai fare!» Strinsi a me il libro come un dolce, innocente, bisognoso bambino. Trovai un altro libro, "Io sono il Messaggero", attendevo questo romanzo con ansia, Zusak è un genio, pensai annusando quel libro come un fiore raro. Abbracciai con affetto tutti, riconoscente. Mi erano mancati come l'aria. Pensai alla mia felicità quando Emy mi avvisò che avrebbero passato il fine settimana fuori, quando la stessa sera avrei voluto cancellare tutto e fare il road trip con loro. Se non altro, quel venerdì mi era servito. Era stato un giorno rivelatorio. Primo: prendere le distanze da Fedo; secondo: tu non hai limiti con l'alcol, meglio smettere di bere; e terzo, ultimo, ma non meno importante, Fabrizio poteva toccarmi. Sentii tutto il mio corpo fremere pensando a quel meraviglioso fantasma poter fare cose da semplicissimo essere umano. A distanza di un giorno, il livido era passato da un violaceo purpureo a un verde pistacchio in mezzo a un'orgia di lilla, nero e giallo. «Allora, vi siete divertiti?» chiesi con finto interesse poggiando del ghiaccio sul doloroso ematoma. Michelle cominciò a parlare senza smettere, Emy era scappata in camera sua con il suo ultimo smartphone e Paolo si mise a cucinare. Oltre ad essere il suo lavoro, era anche la sua passione stare tra i fornelli, una sorta di tranquillante per lui. La voce stizzosa di mia madre disturbò la quiete insediatasi in questo weekend in casa, mi sentivo già avvilita. Le annuivo con gli occhi spalancati fissi in un punto della cucina, bloccata. Sentivo parole sfumate, sgranate, un leggero sottofondo. Avevo soltanto un'immagine davanti, e ormai il mio cervello era andato. Fabrizio. Fabrizio. Dove sei? Continuavo a fare cenni con la testa. Su e giù, su e giù, mentre Michelle raccontava di chissà quale esperienza vissuta a Catania. Immaginai le sue mani ancora una volta sul mio viso, sui miei capelli. Come un tossico brama la sua droga. Un filo di eccitazione mi pulsò intensamente nelle vene, mi camminò lungo la schiena e si insediò ancora più in basso. Cosa mi stava succedendo? Improvvisamente volevo soltanto andare in camera mia e soddisfare quel brivido depositatosi senza permesso sul mio ventre. Scossi la testa, porca puttana. Sospirai. «Che caldo», interruppi il suo logorroico discorso sventolandomi affannosamente. Era la prima volta che non sentivo freddo in quella casa, anzi, sentivo troppo caldo in quella banalissima domenica di fine settembre. Fabrizio era su di me, mi scrutava ancora con i suoi occhi neri. Adesso era dentro di me, come se il mio corpo avesse preso vita attraverso la sua anima. Agivo con i suoi occhi, sentivo la sua energia dentro il mio corpo. «Ti prego, liberati!» ansimavo guardando le mie stesse mani esplorare la mia pelle, prima piano, poi vorticosamente, poi di nuovo con delicatezza, fino a raggiungere una zona del mio corpo ancora inesplorata, non in quel modo, almeno. Non potevo controllarmi. Fu la mia sveglia di Game of Thrones a interrompere il mio sogno. L'intro tragica e avvincente del telefilm mi svegliava ogni mattina, aprendomi gli occhi con garbo, facendomi sorridere pensando che ogni giorno che passava, mi avvicinavo alla nuova e attesissima stagione della serie. Non quella mattina, non quando ero dentro una dimensione estremamente erotica come quella che stavo vivendo qualche secondo prima. Rimandai la sveglia di dieci minuti. Chiusi gli occhi, cercando di far continuare un sogno ormai finito. Sbuffai. Ripensai a quel sogno decine e decine di volte prima di riuscire ad alzarmi dal letto. Fui tentata nuovamente da quello strano impulso di toccarmi, soddisfare quell’ardente voglia di Fabrizio. Esitante, infilai la mano destra dentro i pantaloni, scostai le mutandine di qualche centimetro e chiusi gli occhi. La sveglia suonò di nuovo, questa volta, in modo assordante, fastidioso. Sussultai ritirando la mano, stordita. Il livido cominciava a passare, il colorito iniziò a prendere sembianze decenti, restava soltanto qualche chiazza marroncina. Quando arrivai a scuola, ero tesa come una corda. Non mi andava di entrare in classe, non prima di aver scroccato una sigaretta a Peppe. Eravamo affacciati al solito balconcino vicino la classe, ancora con gli zaini sulle spalle. «Grazie per essere stati con me» gli dissi sospirando la tanto desiderata sigaretta. Quel piccolo oggetto riusciva a darmi meravigliose sensazioni in mattine come quella. Uno sfogo, un piccolo modo di sfogare tutto ciò che avevo dentro. «No, anzi. Ti chiedo scusa, amore. Non avrei dovuto incoraggiarti a fare la zoccola» il rossino aveva un’aria sincera, abbassò lo sguardo nascondendo il suo essere sardonico per un istante. Afferrai il suo mento con due dita e gli depositai un delicato e casto bacio sulle labbra. «Sei il mio migliore amico» sorrisi. «Hai sacrificato un venerdì notte e tutto un sabato per stare con me, per starmi vicino. Tu e Sam siete stati dolcissimi» conclusi ammirando il suo sorriso forbito e luminoso. Quando tornai in classe, notai Fedo seduto all’ultimo banco, triste, pietoso. Il suo naso era circondato da due cerotti enormi che coprivano un grosso ematoma, molto più scuro di quello mio, aveva una crosta sul labbro inferiore che, probabilmente, stava assorbendo la crema precedentemente applicata. Voleva chiedermi scusa di persona, si capiva. Probabilmente non aveva coraggio, si sentiva una merda, comprensibile. Quel venerdì era stato troppo selvaggio per essere un ragazzo normale, anche da ubriaco. Ma era mio compagno, dovevo pur perdonarlo, e poi mi aveva riempito di messaggi in questo weekend. Durante la ricreazione lo vidi seduto in uno scalino vicino me e Peppe, come se stesse aspettando proprio che io facessi la prima mossa, e fu quello che feci. Mi sedetti accanto a lui, soffocando una smorfia, Dio, mi fa pena! Lui mi guardò, triste come un cagnolino bastonato «Hai tutte le ragioni del mondo per odiarmi» disse abbassando lo sguardo. «Ciao a te, Federico. Beh, tu che dici?» «Lo so, Haley, lo so. Faccio schifo, sono un pezzo di merda, scusami. Scusami! Giuro che non mi ricordo niente, capisci? Ero perso!» il suo dito giocherellava con quella strana erbetta che cresceva sul bordo dello scalino. «Ok, Federico, ti credo» improvvisamente non mi veniva più istintivo chiamarlo col suo soprannome, sentivo che dovevo prendere le distanze. Una cosa positiva in tutto questo c’era. Non si ricordava nulla, il che andava a mio vantaggio, non si ricordava chi gli avesse rotto il naso. Grazie al cielo! «Ti chiedo scusa anch’io per quello che ti ho fatto. Probabilmente da ubriaca non so controllare la mia forza» alzai le spalle innocente. Lui scoppiò in una risata isterica «Tranquilla. Ti sei difesa, questo ti onora» No, caro. E’ stato Fabrizio ad onorarmi. E’ stata la sua protezione a ridurti così, e ben ti sta. Adesso eravamo in pace. I limiti erano stati messi, così come i puntini sulle “i”. L’ultima ora, finalmente. Ogni tanto, in classe, mentre mi guardavo intorno per la noia, notavo gli occhi di Federico fissarmi e poi sorridermi, mi giravo subito dopo. Cosa aveva capito? Non doveva capire proprio niente, era un maniaco, punto. Sentii freddo, detti una gomitata a Peppe e gli feci cenno di darmi la sua giacca sportiva. Qualche minuto dopo, il freddo incrementò, mi sentii a disagio, le mie mani erano gelate. Feci una smorfia, che sta succedendo? La mia mente vagò per varie opzioni, poi si fermò su una sola immagine. Quella di Fabrizio, davanti la mia logorroica professoressa, che le dava le spalle, seduto sulla cattedra, con nonchalance, a fissarmi. Mi irrigidii, cercai di non far capire niente a Peppe, che mi stava appiccicato nel banco. «Andiamo a fare una passeggiata» la sua incantevole bocca aveva fatto uscire quelle cinque parole, che bastarono per farmi alzare di scatto, inventare una scusa alla professoressa e uscire nervosamente dalla classe. Oh mio Dio. Quando mi chiusi la porta alle spalle, non lo vidi. Agitata, aspettai che mi raggiungesse nel corridoio. Cazzo, è nella mia scuola! Quanto era bello? La sua maglietta rossa non mi sdegnava mai, anche se era troppo grande per la sua misura, gli stava divina. A mio parere, anche uno straccio poteva star bene a un uomo così bello. Oh, Fabrizio. Perché sei morto? Perché sei un fantasma? Perché mi tormenti? Era come se lo avessi invocato. Il fantasma dagli occhi neri apparse davanti a me. Non parlò, mi sorrise con lo sguardo, inarcando lievemente le sue labbra marmoree. Oh, sembra quasi che sia truccato, pensai.  Mi fece cenno con la testa corvina di andare fuori dell’edificio e lo guardai ammutolita. Ci avviammo verso la palestra. Era perfetta, era l’ultima ora, non ci sarebbe stato nessuno. Lui mi seguiva paziente, io ogni tanto mi giravo verso di lui, con la paura che sarebbe potuto sparire, poi gli sorridevo, come un’ebete. M’infilai in uno degli spogliatoi femminili e mi accomodai in una delle due panchine di legno, quasi all’angolo. «Ciao» sussurrai. Sorrisi. Lui si sedette accanto a me, troppo vicino per poter mantenere la mia sanità mentale. «Ciao, Haley» «Ho così tante domande, mi permetti di fartele?» «Sono qui per questo» chiuse gli occhi per un momento e li riaprì subito, la sua cicatrice richiamò la mia attenzione, facendomi ricordare che dovevo sapere com’era morto. Oh, da dove inizio? «Non so da dove iniziare, giuro» come potevo essere lucida in quel momento? I suoi occhi oscuri mi trapanavano la pelle, le sue ciglia nere maledettamente lunghe sembravano mille corde di chitarra, in attesa di essere suonate dalle mie dita impazienti. «E’ semplice, Haley, tu fai le domande, io rispondo. Mi sembra che tu mi abbia detto questo, la prima volta che abbiamo tenuto una conversazione» Oh mio Dio. La frase più lunga e ordinaria che abbia mai sentito uscire dalla sua bocca. Era così… umano. «Perché ho come l’impressione che tu non sia un fantasma?» Sfoderò un sorriso sardonico mostrandomi di nuovo quel suo lato. «Lo sono, Haley, lo sai» si compose di nuovo, tornando serio. «Sento freddo, lo fai apposta?» il fantasma si accigliò «Farlo apposta? Potrei mai farlo apposta?» scossi la testa mortificata «Scusami, non volevo dire questo, è che mi metti soggezione» «Vuoi che me ne vada?» Se sparissi dalla mia vita, sarebbe la cosa migliore per me, per le mie condizioni mentali, ma perché non voglio? Hai bisogno di me, lo so. «No» abbassai lo sguardo. Il pavimento era umidiccio, c’era muffa in alcuni angoli. Sentii le sue dita toccarmi il mento, riportando la mia testa sulla sua direzione. I miei occhi tremavano, la mia schiena tremava, le mie labbra tremavano. «Hai preso a pugni Fedo, vero?» adesso era il fantasma che aveva abbassato lo sguardo, abbattuto. «Grazie, Fabrizio» piegai la testa su un lato, sorridendo sincera. Dio, il suo profilo. Il suo naso sembrava disegnato, come quelli dei cartoni animati. «Ti ho stesa con una gomitata» «Mi hai salvata» dissi con un sussurro. «Guardami, Fabrizio!» imprecai. Il fantasma si alzò, per un momento ebbi paura. Il suo sguardo era cambiato. Era combattuto, le sue sopracciglia perfettamente delineate si incurvarono nascondendo la cicatrice dalla parte dell’occhio destro, le sue labbra tremavano, e i suoi pugni erano serrati. Lo guardai dal basso, terrorizzata. Ma una parte di me, una profondissima parte di me, voleva scavare su quel terreno cupo e profondo. Mi alzai di scatto a qualche centimetro da lui. «Si può sapere perché mi sfuggi? Sei tu che sei venuto da me! Non ho molto tempo, parlami! Dimmi qualcosa! Tu mi hai toccata, Fabrizio!» «Non sono bravo con le parole» continuava a tremare, nervoso. «Allora forse voglio che tu te ne vada» sgranai gli occhi, in preda al panico, le mie narici erano larghe come quelle di un toro. Non è vero! Pensai. Di colpo, per qualche inspiegabile ragione, qualcosa cambiò. La paura era svanita, sostituita da un torbido desiderio di lui. «Toccami di nuovo» grugnii. Il mio respiro era accelerato, il cuore poteva uscire dal petto da un momento all’altro e prima di realizzare ciò che stava succedendo, sentii le sue virili mani afferrarmi le braccia di lato e sollevarmi come una bambola di pezza. Si scagliò su di me sbattendomi al muro fradicio di una delle toilette dello spogliatoio, con un piede chiuse senza riguardo la porta e le sue labbra si avventarono sulle mie, ambiziose. Cazzo, cazzo! Aprii gli occhi per accertarmi che quello che stava succedendo era reale. Sì, lo era. Era tutto vero, le sue spalle dure come roccia e le sue braccia imponenti circondavano la mia testa. Le sue mani gelate attorniarono il mio collo e la sua lingua calda, che faceva contrasto ad ogni singola parte del suo gelido corpo, esplorò la mia bocca, entrando e uscendo con curanza. Ero folgorata. In apparenza, le sue labbra potevano sembrare di marmo, ma erano morbide e carnose come due cuscini. Mi stava toccando dappertutto. Gemevo nella sua bocca, bisognosa, impaziente. L’eccitazione stava facendo capolino, la mia voglia sempre più crescente di lui spinse le mie gambe ad aprirsi, ad avvinghiarsi ai suoi fianchi. Sentivo la sua erezione premere contro la mia intimità, una sensazione inebriante. Sei più vivo che mai, e io ti voglio. Strinsi a me quella creatura ricambiando ogni singolo tocco, ogni singolo, meraviglioso bacio, ero estasiata. «Mi fai impazzire» dissi tra un gemito e un altro. Sentivo i suoi denti sulle mie labbra, capii che stava sorridendo. «Eh? In che bagno sei infilata? Fammi entrare che ho bisogno svampare!» spalancai gli occhi nel sentire quella voce familiare, e di nuovo, per l’ennesima volta, mi ritrovai a pensare: “Tempismo perfetto, Peppe!”

Il DonoWhere stories live. Discover now